6. Bianco latte

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La mattina a Londra arrivò presto, i primi flebili raggi di sole si intrufolarono fra i buchi della persiana, e corsero a poggiarsi sul viso bianco e stropicciato per via delle coperte di Ray. La fronte gli si corrugò e le sopracciglia folte e nere gli diedero un'espressione infastidita. Il calore poggiatosi sul viso, lo costrinse a svegliarsi. Si alzò, si stiracchiò e dopo essersi lavato mise una felpa grigia e dei jeans neri, indossò delle delle converse, prese un libro dalla sua amata libreria, uscì di casa e si diresse verso il cafè più vicino. 

Si assicurò più volte di avere le chiavi in mano. Fece girare il portachiavi fra l'indice per tre volte,  strinse forte le chiavi, le guardò per un paio di secondi, le face saltellare sul palmo e poi le strinse di nuovo, per sentirle, e per capire che non le aveva dimenticate a casa. Questa era una cosa che faceva ogni giorno, ogni volta che usciva fuori di casa. Se mai avesse dimenticato le chiavi dentro casa, non avrebbe mai saputo cosa fare se non piangere e disperarsi. E se non ripeteva tutto quel procedimento, la giornata sarebbe andata sempre a peggiorare.

Ray sentiva la necessità di avere le cose sotto controllo, di sistemare tutto per bene o dei pensieri angoscianti e assillanti gli avrebbero occupavano la mente. Fu così che all'età di quindici anni, dopo una crisi ossessiva in collegio a causa della troppa confusione che c'era in aula, gli venne diagnosticato il disturbo ossessivo compulsivo.

Quel giorno, non era in grado di fermare i pensieri ossessivi nella sua testa: lo tormentavano gli dicevano di sistemare i banchi di tutta l'aula, di pulire alla perfezione il suo di banco, che la lavagna non rientrava perfettamente fra le line delle mattonelle del pavimento, che c'era troppo rumore, i pavimenti erano sporchi, Elle non era ancora in classe. Era tutto fuori posto. Più i pensieri divenivano dettagliati, più perdeva il controllo. Iniziò a tremare, a provare disgusto. Voleva urlare a squarcia gola, ma dalla sua bocca uscivano solo frivoli lamenti. Iniziò a tamburellare le dita sulla ginocchia, a pizzicarsi le braccia e le mani. A spostarsi le cuticole del pollice con l'indice. I lamenti si facevano sempre più forti e i compagni non chiudevano la bocca. La porta dell'aula sbatteva di continuo per via della corrente del vento causata dalle finestre spalancate. All'improvviso, Ray si alzò di scatto dalla sedia facendola cadere all'indietro creando un grande tonfo. Si sentì mancare l'ossigeno. I palmi delle mani gli sudavano; iniziò a guardarsi intorno: Aveva gli occhi di tutti addosso. Il rumore si era fermato in un nano secondo. Egli sentì adesso il vuoto prendere il sopravvento. Vomitò sul banco. Corse poi in bagno si accasciò a terra e inizio a tirarsi i capelli, a mordersi e a far sanguinare le cuticole delle dita. Cullato dalle sue urla continuò a ripetersi una frase, che gli rimase in testa per molto tempo.

''Il dolore Ray, rende umani.''

Le palpebre di Ray, iniziarono a rilassarsi e le urla, lentamente, ritornavano ad essere dei frivoli lamenti. Continuava a tremare ma riuscì a tornare in sé. Il bagno era pulito e profumava di candeggina e limone. Dopo la crisi,  fu portato nella clinica vicino al collegio. Gli fu detto che avrebbe dovuto iniziare un percorso di psicoterapia. Era già stato parecchie volte sia dallo psicologo che da una psichiatra, ma credeva che non fossero d'aiuto. Saltava gli appuntamenti e mentiva su quei pochi che faceva. Aveva paura che nessuno potesse credere a ciò che diceva. Questa volta però fu obbligato, e fu seguito dallo psicoterpeuta del collegio stesso. 

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Il vento urlava e si urtava contro le pallide guance di Ray, provocandogli un leggero sorriso.  L'aria fredda gli smuoveva all'indietro il ciuffo nero, e gli pizzicava gli occhi, facendogli avvertire un piccolo bruciore fra le ciglia. Le foglie cadute dagli alberi, sembravano rincorrersi mosse dal soffio del vento: creavano vortici, si scontravano, e cadevano, per poi poggiarsi delicatamente sulla strada fin quando il vento non le smuoveva ancora e ancora. C'erano poche macchine lungo la strada, e il rumore della città era abbastanza monotono. Qualcuno di essa sfrecciava veloce sull'asfalto, i semafori cambiavano colori e la gente, tranquillamente, attraversava la strada. Dopo qualche minuto arrivò davanti al cafè. 

La trasparenza dei coloriWhere stories live. Discover now