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Avevo sempre odiato gli ospedali. Ne detestavo il colore smorto degli interni, gli altari dedicati alla Madonna e i crocifissi appesi alle pareti. Quella ricerca di religiosità non mi faceva pensare ad altro che ad un fittizio conforto divino per quando non resta più alcuna reale speranza.

Le sedie delle sale d'aspetto erano in plastica, strette e prive di ogni comfort, da rendere la già terribile attesa una vera e propria agonia.

Non sopportavo l'andirivieni degli infermieri, l'odore pungente del disinfettante di cui ogni stanza era pregna, e la tristezza e il dolore dipinto nel viso dei pazienti.

Di fianco a me era seduta una donna sulla trentina, carnagione chiara e lentiggini dappertutto. Sul viso un'espressione angosciata mentre al petto teneva stretto un neonato paonazzo e febbricitante che non la smetteva più di piangere. Me l'ero immaginata sola in casa, preoccupata per non esser riuscita ad abbassare la temperatura del piccolo. Sulle postazioni che si trovavano di fronte a me, un adolescente in compagnia dei genitori, con una mano fasciata. Molto probabilmente si era fatto male giocando per strada. Alla loro destra altri due uomini, che dall'aspetto sarebbero potuti essere miei coetanei. Il più magro dei due con delle ferite sul viso, l'altro più cicciotto e tarchiato con una frattura al piede. Li immaginavo dentro un'auto, andare a tutta velocità fino a sbattere contro il muso di un'altra macchina. Poi il dubbio mi assalì, e pensai che potessero essere caduti da un dirupo durante un'escursione in montagna, o che sarebbero potuti essere vittime di una violenta lite.

Avevo passato gli ultimi trenta minuti a fantasticare su cosa fosse potuto succedere a quei visi affranti fissi a guardare il vuoto delle pareti insieme al mio di viso, non meno affranto del loro.

Ad un tratto le sirene di un'ambulanza. Prima in lontananza, poi sentirle squillare sempre più vicino, fino a spegnersi una volta fermati davanti al pronto soccorso. Lo stridio metallico delle ruote di una barella che slitta sotto i nostri occhi con estrema velocità, tanto da fare quasi scintille sul pavimento in pvc.

Daniel era entrato da più di quaranta minuti, e l'ansia mi stringeva lo stomaco e aveva ridotto al minimo la mia salivazione. Aveva ripreso i sensi pochi istanti dopo la caduta, ed io immediatamente lo avevo trascinato fino in macchina e portato all'ospedale più vicino.

L'attesa era diventata interminabile. Non riuscii a stare seduto un minuto di più così mi alzai dalla sedia e cominciai a passeggiare per tutta la stanza.

All'improvviso le porte scorrevoli si aprirono ed io riconobbi subito la sua figura slanciata. Gli corsi incontro, prima ancora di notare la sua mano che teneva ferma del ghiaccio sulla sua guancia.

«Come stai? Ti hanno fatto degli esami? C'è qualcosa che non va?»

«Mattia, calmati. È tutto ok.» Sussurrò invitandomi con lo sguardo a fare lo stesso.

In silenzio e a grandi passi uscimmo dal pronto soccorso e ci avviammo verso il grande parcheggio situato proprio di fronte all'ospedale.

«Perché non hai voluto che ti accompagnassi?»

«Perché sono un adulto, Mattia. Avrei fatto la figura dell'idiota se fossi venuto con me fin dentro l'ambulatorio.»

«Come ti pare... Ma che ti hanno detto?»

«Che a parte questo», sollevò il sacchetto di ghiaccio dalla guancia mostrandomi il livido che copriva lo zigomo fino ad arrivare al perimetro del labbro, dove si apriva un piccolo taglio, «Va tutto bene. È stato soltanto un calo di zuccheri! Te l'avevo detto che non c'era nulla di cui preoccuparsi!»

«Sei caduto a terra davanti ai miei occhi, non ho avuto neanche il tempo di sorreggerti!», mi iniziarono a tremare le mani soltanto al ricordo di come lo avevo visto accasciarsi per terra all'improvviso. «Mi hai fatto prendere un colpo!»Sentii di avere gli occhi lucidi e per non farmi vedere in quello stato abbassai lo sguardo cercando di calmarmi.

«Hey piccolo... Mi dispiace averti fatto preoccupare.», mi prese le mani dentro le sue, tenendole ferme e me le baciò. «Adesso però va tutto bene, quindi per favore mi prometti di stare sereno?» Portò due dita sotto il mio mento e mi alzò il viso.

Lo guardai negli occhi, cercai di non farlo ma cominciai a singhiozzare. Affondai la testa sul suo petto e lo strinsi forte tra le mie braccia.

Dopo essermi liberato dell'angoscia, entrammo in macchina. Avevo deciso di guidare, per far riposare Daniel.

«Che ne dici se andiamo a prendere la nostra roba e torniamo a Roma?» Gli suggerii, notando l'aria stanca che aveva sul viso.

«Sono d'accordo. Anche se sono sicuro che, dato il conducente, ci metteremo un'infinità di tempo!"» La sua bocca si piegò in un sorriso ed io gli diedi un colpetto sul braccio. Poi premetti sull'acceleratore.

In autostrada, durante il tragitto, Daniel si addormentò con la testa poggiata sul vetro del finestrino non appena il cielo cominciò ad imbrunirsi.

Le luci arancio dei lampioni scorrevano ai lati della carreggiata deserta, priva di altre auto. Allungai la mia mano verso la sua e la strinsi forte mentre il cartello con affissa la scritta "Roma" mi diede il bentornato in città.

AMORE89Where stories live. Discover now