51 - Londra, 1992

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Febbraio

Steso sul divano del salotto, che ormai era diventato il mio letto da diverso tempo, lo strillo di Sarah proveniente dalla sua stanza fece sussultare Dakota che, come ogni notte, si era appisolata tra le mie gambe e drizzando immediatamente le orecchie e abbaiando senza sosta, si precipitò scodinzolante immediatamente da lei.

Balzai all'istante fuori dalla coperta, mi infilai di fretta i pantaloni del pigiama e seguii Dakota che si era seduta sulle zampe posteriori e con aria dubbiosa davanti alla porta della stanza.

Non ebbi il tempo di riuscire a bussare, che Sarah si era già catapultata fuori e me la ritrovai davanti a me con le lacrime agli occhi, già vestita e con le mani indaffarate a sistemarsi i lunghi capelli biondi in uno chignon.

«C-che succede?» Balbettai confuso.

«Daniel!» Pronunciò il suo nome frettolosamente. Per un breve istante mi strinse tra le sue braccia e poi a grandi passi entrò in bagno, si infilò lo spazzolino in bocca e continuò a parlare. «Ha chiamato Giselle proprio un attimo fa. Daniel si è svegliato! Corriamo in ospedale!»

Alle cinque del mattino Londra sprofondava ancora nel buio. La carreggiata era semideserta e Sarah aveva smesso di rispettare il limite di velocità già da qualche minuto, ma per quanto mi riguardava, l'auto continuava ad andare troppo lentamente e comunque sempre meno veloce di quanto il mio cuore avesse deciso di battere durante tutto il tragitto.

Scesi dalla macchina ci dirigemmo a perdifiato verso il reparto di oncologia. Entrati in ospedale, io non aspettai nemmeno che l'ascensore arrivasse fino al piano terra e decisi di fare le scale. Allungando una gamba davanti all'altra riuscivo a fare più di un gradino alla volta. Primo, secondo, terzo, quarto. Arrivato al quinto piano, il reparto di Daniel, mi sentii incredulo.

Daniel si era svegliato. Era tutto reale o stavo solo sognando?

Mi inoltrai nel lungo corridoio, svoltai a destra e prima di entrare lo vidi dalla finestrella in vetro.

Era proprio lui! La schiena sollevata e poggiata sulla spalliera del letto. L'aria stanca, il viso scarno e affaticato, gli occhi gonfi e semichiusi e le labbra pallide, che gli si aprivano appena mentre parlava al padre che era seduto proprio vicino a lui. Gli stringeva un polso e Caren, in piedi dietro Robert, teneva le mani ferme sulle sue spalle. Di Giselle riuscivo a vedere soltanto la schiena; si trovava sul lato opposto del letto e la sua figura copriva il resto del corpo di Daniel.

Mi precipitai dentro la stanza in un battibaleno e quando i nostri sguardi si incrociarono i miei occhi cominciarono lentamente a riempirsi di lacrime e non riuscivo più a controllare la mandibola e le ginocchia, che cominciavano a tremare senza che ne avessi il controllo.

«Daniel, tu-tu sei sve...» Provai a parlare ma mi fermai all'istante perché la voce mi sei era completamente incrinata. Rimasi immobile, a battere le palpebre e a guardarlo incredulo. Poi ho visto il suo labbro piegarsi lentamente da un lato e guardandomi dritto negli occhi ha alzato le sopracciglia come a confermare che si, era proprio lui ed era sveglio e non dormiva più e non si trattava di immaginazione e non stavo sognando ma era tutto vero e reale.

La stanza si è svuotata appena un istante dopo. Prima di andare via, Robert mi diede una pacca sulla spalla e mi regalò un dolce sorriso. Poi sentii il tonfo della porta chiudersi alle mie spalle, ed io restai ancora lì, in piedi, immobile e singhiozzante davanti all'amore della mia vita.

Ero paralizzato. Sarei voluto precipitarmi da lui, avrei voluto abbracciarlo, stringerlo forte, baciarlo e dirgli che lo amavo, che avevo pregato, aspettato e sognato ogni notte che arrivasse quel momento, ma per qualche strano motivo riuscivo solo a piangere. E a ridere. Piangere, ridere e tremare mentre Daniel mi guardava con lo sguardo più tenero del mondo.

Dopo un po' riuscii finalmente ad avvicinarmi. Lo feci lentamente, un piede davanti all'altro fino a sfiorare il suo letto.

Lui non disse niente, allungò solo un braccio verso di me ed io lo afferrai con tutta la forza che avevo e mi piegai in avanti e continuai a frignare come un bambino, con la fronte poggiata sul palmo della sua mano mentre le lacrime inumidivano la sua pelle chiara e fredda.

Subito dopo lo sentii pronunciare qualcosa, ma per riuscire a capire dovetti accostare il mio orecchio alla sua bocca.

«Mi hanno de-detto...», non riuscì a finire la frase a causa della tosse. Io annuii lentamente, come a dirgli di non avere fretta. «Mi hanno detto tutto,» Disse con un filo di voce, socchiudendo un po' gli occhi per lo sforzo. Poi riprese a tossire. «Gr-grazie.», provò a schiarirsi la voce, «Grazie per esserci stato, mon petit prince.»

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