𝕯𝖎𝖈𝖎𝖆𝖘𝖘𝖊𝖙𝖙𝖊

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30 𝑔𝑖𝑢𝑔𝑛𝑜 1961

𝐼𝑛 𝑐𝑢𝑖 𝑢𝑛'𝑢𝑙𝑡𝑖𝑚𝑎 𝑏𝑢𝑔𝑖𝑎...

Le lacrime di Clay smisero di scivolargli lungo il volto ore dopo, il suo corpo esausto giaceva contro gli scaffali di quella biblioteca dove la prima volta aveva sentito la candida voce di Conrad sussurrare una dolce canzone. La scala di legno lo stava ancora proteggendo dal resto del mondo, ma gli occhi di Clayton erano chiusi e non potevano vederla, mentre le mani si strinsero a quel libro fin quando le dita persero il loro tono roseo e divennero gialle.

Era rannicchiato, con le ginocchia a proteggere il volto e la schiena curva su se stessa, senza alcuna forza di raddrizzarsi. Soltanto i singhiozzi mostravano qualche suo movimento, un segno di vita e urlavano a quei vecchi libri impolverati che Clayton era ancora vivo ma soffriva tremendamente.

Merito di esserlo? La domanda che lo tormentava da tempo. Nora e Lonnie erano morti e loro non lo meritavano. Conrad era morto dopo aver supplicato il suo perdono, dopo avergli salvato la vita. Clay non gli allungò nemmeno la mano, non lo strinse in quell'abbraccio che il suo sguardo implorò perché non ebbe nemmeno il coraggio di guardarlo negli occhi. Merito di essere vivo al posto loro?

Un nuovo singhiozzo lo scosse e un conato di vomito gli fece schiudere le labbra, stringere lo stomaco e lo spinse a piegarsi in due dal dolore. Ci fu però un momento, dopo quell'ultimo singhiozzo, che a Clayton parve finalmente di smettere di respirare, quel peso sul petto lo schiacciò facendolo sentire in trappola e strinse i denti fin quando non si liberò. L'aria riprese a scorrergli nei polmoni e Clayton tossì per aver pianto e singhiozzato troppo, gli occhi gli bruciavano e il naso chiuso lo costringeva a respirare con la bocca ormai secca.

La biblioteca che fino a quel momento aveva stretto Clay in un empatico abbraccio si allargò nuovamente facendolo sentire ancora più piccolo in uno spazio così vasto, stretto a se stesso. Avrebbe voluto diventare un insignificante granello di polvere e posarsi su quei vecchi scaffali di legno a riposarsi fin quando qualcuno non ci avrebbe soffiato sopra ridandogli vita.

«Non piangere...», un sussurro, un alito di vento gli spostò una ciocca. Conosceva quella voce, aveva stretto gli occhi e aveva urlato tanto da sognare quelle dolci parole. Conrad.

«Mi dispiace...», singhiozzò ad alta voce poggiando la fronte sulle ginocchia. Sentì una mano scivolargli tra i capelli e prendere un po' di quel dolore che non gli permetteva di alzarsi.

«Sono qui, Clay.», quelle labbra che si posarono sulla sua testa, trattenendosi tanto a lungo da farlo quasi sorridere di sollievo, erano troppo reali per essere una mera allucinazione.

Alzò la testa con la sola forza di volontà a spingerlo e, quando aprì gli occhi, quelli scuri e profondi di Conrad lo stavano osservando con amore. Clayton lo fissò come se si trovasse di fronte al migliore spettacolo della propria vita, fece scorrere lo sguardo su quel morbido viso bianco, sul taglio degli occhi, sul naso dritto e su quelle labbra che aveva assaporato. Allungò le dita, aspettandosi di attraversarlo come un fantasma, ma queste si fermarono sulla sua guancia, sfiorando la morbida pelle con i polpastrelli feriti dai pezzi di quel vaso rotto. Conrad chiuse gli occhi e una lacrima abbandonò quello schermo lucido che faceva sembrare il suo sguardo tremante.

«Conrad.», la sua voce era rauca e la gola gli faceva male, ma il tono sempre più deciso man mano che realizzò di averlo davvero lì davanti a lui.

«Eri preoccupato per me?», domandò Conrad poggiando la fronte sulla sua, Clay pianse ancora prendendo il suo viso con entrambe le mani e avvicinandolo tanto da poter sentire il suo respiro sulla pelle. Lo baciò, lasciando che Conrad si prendesse tutto quello che Clayton aveva da offrire, chiedendogli scusa per le parole che gli aveva rivolto, per averlo guardato anche solo una volta come un mostro quando non era altro che una vittima come tutti loro.

𝗕𝗮𝗺𝗼𝗿𝗮𝗹 𝗖𝗮𝘀𝘁𝗹𝗲Where stories live. Discover now