Capitolo I

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Riley, 20 ottobre 1996

Le mie pupille stanno incominciando a diventare un reticolato uguale a quello delle mattonelle marroni che rivestono il pavimento del cortile della scuola. Le voci dei miei amici si confondono tra i ciuffi d'erba in mezzo ad una piastrella e all'altra.

Vorrei poter chiudere gli occhi per confondermi nell'universo, ma la realtà dice che quando sei parte di una conversazione tra compagni non puoi cadere in uno stato di trance e viaggiare con la testa.

Non vedo l'ora che arrivi stasera, almeno sotto le coperte posso permettermi di estraniare me stesso dal resto del mondo.
Mi piace sentire quella sensazione di fruscio che le lenzuola provocano sulla pelle, è un suono che mi calma. Sarebbe più bello aspettare al caldo nel letto piuttosto che qui su questo marciapiede freddo e umido.

Io aspetto tutti i giorni. Anche la mia vita è una grande aspettativa fallita.

Da piccolo tutti mi dicevano che sembravo molto intelligente, che avrei potuto fare ogni cosa e roba di questo genere. Mai si sono sbagliati così tanto.
Non so fare niente e non potrei mai essere utile per nessuna cosa.
Se mi accartocciassero e mi buttassero nel cassonetto, sono certo che nessuno si chiederebbe dove io sia finito.

Tantomeno i miei genitori. Hanno mollato la corda, si erano stancati di tirare verso la loro parte dopo diciassette anni di resistenza costante. Vedere il loro unico figlio marcire in se'stesso non deve essere stato semplice, lo ammetto.
Ammetto un sacco di altre cose, non ho riguardi nel rendermi consapevole: non sono mai stato presente, non dicevo neanche una parola, facevo tutto ciò che andava fatto ma mancava quel pizzico di sentimenti che io non avevo e che sarebbe servito per completarmi.

Credo sia una malattia, quindi io sono malato. Come ad alcune persone mancano uno o due cromosomi, a me manca l'umanità. Cosa sono tutte quelle cose, rabbia, paura, felicità, tristezza? Non riesco a distinguerle.
Io vedo una persona e non capisco cosa provi nei miei confronti.

Mi sono pure sentito dire che probabilmente ho una patologia di autismo, e mi è venuto da ridere.
Ecco. In quel momento la realtà avrebbe detto che bisognava essere infastiditi. E io ridevo, anche se so benissimo che al mio cervello non mancano pezzi.
Significava che ero felice, ma anche astioso, ma anche consapevole.
Però alla fine nella mia testa c'era solo un fiore dal quale cadono petali bianchi, un rovo di spine rosse e poi una grande nuvola grigia che eliminava tutto ciò che avrei potuto provare.

Intanto, la chiave dell'universo è aspettare.
Mentre i tre elementi, che non so se siano immaginari o meno, radono al suolo ogni pensiero, io sono costantemente in attesa.

Solitamente non so di cosa, però alcune volte sì, la mia testa me lo dice mentre sono in quel dormiveglia fastidioso in cui non sai se hai caldo o freddo e non sai per che stupido scopo ti abbiano creato.

Come un sussurro, all'improvviso, lo sento attraversarmi le orecchie.

Una leggera scossa indica che il mio corpo è vivo: pelle, muscoli, ossa e sangue, che dopo un po'di tempo smettono di esistere.
Quel brivido mi dice che io nasco. E che in mezzo aspetto la fine.

Hyris, 27 ottobre 1996

Ho piuttosto freddo. Sento il vento che graffia la schiena e mi fa venire la pelle d'oca.
Non riesco a tenere ferme le dita: stanno tremando da dieci minuti, ossia da quando mi sono chiusa in bagno, e non accennano a fermarsi.
Anche se cerco di respirare, i polmoni si contraggono e fanno un suono che fa un po'ridere, come se fosse un singhiozzo strozzato.
È meglio che non rida, però, perché appena tento di emettere un qualsiasi verso con le corde vocali, la gola mi fa malissimo.

Non mi piace il mascara che cola su tutte le guance, non mi piacciono le mani, non mi piacciono i capelli, non mi piacciono le lacrime. Sono di sale, e le uniche cose che amo sono quelle dolci.

Non mi piace niente di me.
Sono la via di mezzo, purgatorio grigio ad un passo dall'avere sfumature rosse e ad un altro dall'avere sfumature azzurre. Ma la minima distanza è ciò che non riesco a percorrere e che mi dà così fastidio.

Anche se faccio finta di essere l'imperatrice del regno delle metà, ne sono solo un suddito.

Che il suo re l'ha appena perso, a dire il vero. Quello che aveva gli occhi chiari, i capelli neri e una bocca che solamente guardandola dovevi baciarla per forza.

Vorrei poter dire di essere una ragazza forte, piangere per poi rialzarsi e affrontare il mondo nuovamente.
Purtroppo non lo sono. Alterno l'indisponenza alla docilità, quando qualcosa mi segna lo fa per sempre e i miei tentativi di coprire le cicatrici sono piuttosto patetici.

«Hyris, che fai là dentro?» ecco un'altra servitrice dell' impero di mia presunta proprietà.

Hanna, la migliore amica, dovrebbe essere la spalla su cui piangere. In questo momento la mia spalla però è costituita da un lavandino con le manopole dorate, quindi è evidente come in realtà lei non conti nulla.

Sono così da quando Aron mi ha detto quelle stupide parole, "non posso". Ma cosa non puoi?

Com'ero stupida. Com'ero stupida a credergli. Lui mi diceva che ero bellissima, io non facevo altro che sbaciucchiarlo da perfetta idiota.
Mi manca il senso di completezza e di calore che senti dentro quando hai qualcuno presente vicino a te, o che almeno finge di esserlo.

Mi ha lasciato dicendomi che non poteva, salendo sulla moto e dando di gas con il mio casco ancora nel suo portabagagli.
Ora lo odio, anche perché oltre ad essersi preso buona parte di me, mi ha anche fottuto il casco a cui tenevo di più.

Mi piacerebbe molto, ora, torcere la testa a chiunque mi capiti sotto tiro. Da quando Aron non c'è più, le persone stanno incominciando poco a poco, una per una, a farmi schifo.

È un morbo grigio che, sotto il mio sguardo, svuota le persone delle loro caratteristiche e le riempie di una massa simile a nuvole che preannunciano tempesta.

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