Capitolo XVII

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Riley, 18 luglio 1997

È finita da due settimane. E adesso?
Fino all'altro giorno ero in quinta.
Il futuro sembra un grande trampolino che mi fa saltare in una piscina vuota.

L'unica cosa di cui sono certo è che sto male, perché oggi è il terzo giorno di chemio. La sensazione peggiore che io abbia mai provato.
Anche in autobus, gocce di veleno colano nel mio sangue. Ogni volta che inizia la terapia, ce ne sono talmente tante da far rimanere il suono del loro scorrere sottopelle anche quando mi tolgono l'attacco dal catetere.
Desidero non dover sentire più nulla.

Hyris non esisteva, non esiste, non esisterà. Non le parlo più da quando è venuta in casa mia e io ho usato la forza per farle del male. Sono inevitabilmente stato punito: le nostre vite non si intersecheranno di nuovo.
Lei vuol dire speranza, luce. È il mio unico sole.
Ma ormai, in una distesa di ghiaccio, un raggio non é sufficiente.

Confusione, caldo, umani; l'unica prova della concretezza del mio corpo è il metallo freddo a cui mi tengo stretto con la mano sinistra. Sento i nervi tendersi esageratamente, le vene dilatate e il cuore che batte all'impazzata.

Ci tocchiamo tutti, senza guardare negli occhi, senza pensare a cosa proviamo.
Forse sono io a dare troppa importanza al contatto, a ritenerlo unico e diverso per ogni persona che mi sfiora.

Perché per gli altri non è così: loro trasmettono ogni emozione abbracciando, urtando, stringendosi le mani, dando carezze oppure pugni. Tutto è gratuito, uniformato, un corpo vale l'altro. Non importa che sia amica o meno, la vicinanza fisica é sempre usata per costruire un legame.

Dalle porte automatiche entra aria umida e senza ossigeno, ansiosa di essere respirate dalle decine di bocche fameliche.

Copro le palpebre con il palmo, per non far entrare i raggi di sole.
Pensa a cosa succederà dopo, al suo ricordo. Non distinguo dove sia il confine tra la realtà che io immagino e quella che è davvero.

I torrenti arrivano sempre al fiume. Tutti coloro che fanno battere il proprio cuore sono corsi d'acqua impazienti di annullarsi tra la folla.

Altre gocce, le sento scuotere le vene. Faccio fatica a non distendermi per guardare il soffitto e tornare a respirare.

Lei è felice senza di me. Mi chiedo perché ci siamo incontrati, quel giorno d'autunno, nel parco avvolto dalla nebbia. Perché abbiamo continuato a respingerci e poi ad attrarci senza capire di aver creato un circolo estenuante.
Ricordi di fango, secchi e sporchi.

Delle fitte incominciano a stringermi l'addome, sono forza di parole non dette.

Ho bisogno di aiuto. Devo alzarmi e scendere alla prossima fermata.

Ma vengo sommerso da fiori soffocanti che odorano di ospedale: muschio marcio e disinfettante. Ho i conati di vomito.

Mi tengo saldo solo ai suoi occhi, abbandonando i miei. Prego perché mi guidino fuori di qui, anche se sto mollando la presa e questo Hyris lo odierebbe sicuramente.
Il mio ego esce dalla sua sede, si scinde talmente da poter sentire la gravità che attrae il mio corpo verso il basso, e poi le vibrazioni dell'urto fortissimo sul piano solido.

Una persona, una persona. Per la prima volta, tradisco la diffidenza e ancoro la mano al suo polso. Non voglio che vada via. Sono rimasto senza nessuno così tante volte perché mi sono ostinato a non creare dei legami. Ho bisogno di altra umanità all'infuori della mia. Sono solo.

«Ho già chiamato l'ambulanza.»

Ospedale, no. Non di nuovo.

«Falli tornare indietro!» dico con la bocca impastata.

The Unsaid | Wattys2017Where stories live. Discover now