Capitolo IX

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Riley, 6 gennaio 1997

Le chiedo se ha voglia di andare.
So che preferirebbe rimanere qui, ma il tono con cui le ho parlato implica che la domanda sia retorica.

Stiamo camminando per la periferia di Cork spingendoci verso la fine della città.
Lo smog delle macchine e dei tir che ci passano vicinissimo mi fa bruciare gli occhi.
Intorno a noi è tutto grigio e il cielo incomincia a fondersi con l'asfalto. Ho mal di testa, non riesco a pensare.
Manca poco. Altri passi e basta, soltanto mettere un piede davanti all'altro.

Lei è davanti a me ma non voglio vederla anche perché cammina sul bordo del marciapiede cercando di stare in equilibrio, e questo per Hyris mi pare un'utopia.

Finalmente siamo di fronte al muro di cinta. Non è molto alto, forse un metro e mezzo. Però lei ovviamente ha paura ad oltrepassarlo e ha incominciato a rabbuiarsi non appena l'ha visto.

«Come facciamo?» chiede.

Non riesco a capire perché fa domande così stupide.
O scavalco e ti tiro su dall'altra parte, o porto prima te e dopo passo io.
Non è molto difficile.

Oh, no, aveva ragione. È difficilissimo.
Avere la sua vita tra le braccia mi rende estremamente teso. È troppo magra, se sento le costole sotto la maglia di lana aderente non credo sia normale. Il suo respiro sul mio collo fa sì che l'universo sia molto confuso.
Solo un secondo, la voglio guardare vicina a me. Sento il suo cuore che batte forte sotto i palmi delle mie mani.

La vibrazione leggera di quando le sue gambe toccano il pavimento separa da noi questo momento di luce.

L'atrio in cui mi sto guardando intorno è stato il magazzino della fonderia. Il soffitto è altissimo, tutto annerito dalle scorie della lavorazione.
Si sente ancora quell'odore di acciaio caldo, come quando avvicini il coltello al fuoco e la lama sa di acido, pietra e sotterranei.
La parete sud ospita più che altro l'edera, dato che si è impadronita di tutte le entrate per il carico e scarico.

Questa stanza fa soffocare per eccesso di aria.
Non ha alcun senso, ma nemmeno i miei polmoni ce l'hanno, quando decidono di fermarsi e poi ripartire molto più velocemente, nel caso in cui gli occhi vedano uno spazio troppo grande, o troppo ristretto, o troppo luminoso, o troppo buio, o troppo rumoroso, o troppo frequentato.

Gli unici posti che sopporto sono quelli dove c'è silenzio e non ci sono esseri umani.
Qui invece i motori passano ogni secondo e l'umana ce l'ho a dieci centimetri di distanza. Anche piuttosto fastidiosa, perché non la smette di chiedermi cos'è quello, andiamo di là, a che serviva questo qui. Le parole mi calcificano i solchi celebrali.

La polvere sta riempendo le ossa e trasformandole in cenere. Il mio scheletro è un mucchio di pensieri bruciati.

Non sono sbagliato. È l'universo che gira in senso opposto. Solamente il mio piccolo infinito va per quello giusto.

Anche quello di Hyris è scorretto.
Non mi piace non potermi allineare con nessun'altra galassia, ma almeno stando solo capisco la preziosità della mia.

Tornando a casa, scopriamo che le corse dei taxi e degli autobus sono finite da un quarto d'ora. Ardpatrick dopo le dieci è completamente fuori dal mondo.

So già che mi chiederà se posso ospitarla stanotte con quella faccia che sei obbligato a dirle di sì, dannazione. La vorrei ammazzare.
Ed è quello che faccio - nel senso di lasciarla dormire da me.

***

Chiede se c'è qualcosa da mangiare curiosando nell'armadietto della dispensa.
Odio le persone che pretendono di avere tutto servito e odio le persone che frugano negli affari degli altri.
La sposto da lì con un braccio e con l'altro tiro fuori un pacchetto di pop-corn.
Me lo ruba di mano e si va a sedere sul divano.

«Da quando questa è diventata casa tua?» lecco le labbra.
È come se volessi riprendere le parole che ho sprecato, ma non ci riesco mai.

«Mi porti quei fogli lì?» ignora la mia domanda indicando i disegni sulla poltrona.

Glieli do sbuffando e sedendomi accanto a lei.

«Perché non la smetti di essere così acido?»

«Perché di sì.»

Pare che io abbia detto una cosa sbagliata; ho premuto il grilletto della sua mente.
Sono molto spaventato dal fatto di riuscire a metterle in testa idee strane.

Quando è a poca distanza da me sento una piovra che torce lo stomaco e gioca a bloccarmi e far ripartire le vie respiratorie a suo piacimento. Eccola, quei crampi sotto i polmoni sono i suoi biglietti da visita.

Si mette in ginocchio sul divano e si avvicina gattonando.
Sembra una bambina.

Quando si mette dietro di me e muove le mani sulle mie spalle, però, mi pare improvvisamente cresciuta.

«Secondo me devi solo rilassarti.»

Hyris, 6 gennaio 1997

Appena sente che sono vicina é come se diventasse pieno di scariche elettriche. Balbetta qualcosa per giustificarsi del fatto che gli è venuta la pelle d'oca. Mi fanno ridere i suoi patetici tentativi di essere indifferente: è come se nell'incendio volesse cercare il fiammifero.

Almeno quando premo le dita sulla sua schiena diventa un po'meno teso. Finalmente posso mettere in pratica le teorie sulle contrazioni muscolari che il mio allenatore mi ha insegnato. Spesso perdiamo mezz'ora in idiozie come riscaldamento e teoria invece di fare vasche, ma in questo momento gli sono grata.
Riley è un fascio di nervi. Sento solo i tendini e subito dopo le ossa.

Si gira un poco, quello che basta perché le nostre guance si tocchino.
Chiudo gli occhi per un attimo sperando che quando li riapro lui smetta di trattarmi come se fossi priva di sentimenti.
Tanto so che non potrò mai cambiare il suo modo di vedere le cose.

***

Mi sposto sulla poltrona con i fogli in mano. Non la smette di spostare lo sguardo ansiosamente da me ai suoi polsi.

Faccio finta di non vedere che si sta attorcigliando la catenina di metallo intorno al braccio finché la pelle non diventa quasi blu.

Quattro denti di leone incollati sulla pagina, una casa graziosa vicino ad altre identiche, degli appunti su Polanski, Spice delle Spice Girls.

Aspetta, che cosa?
Ho visto male.

No, se lo sto rigirando tra le dita non ho visto male.

È proprio il loro disco.
Ma che ci fa tra le cose di Riley?

«Non è niente, lascia perdere» bofonchia mangiandosi le unghie, come se mi avesse letta nel pensiero.

«Cioè?» lo guardo cercando di fargli capire la mia confusione.

«Mi piacciono le Spice Girls, ok? C'è qualcosa che ti disturba in questo?» grida.

Non avevo mai sentito la sua voce alzarsi prima di adesso, ma quand'è arrabbiato sembra ancora più sexy.

Ero abituata al suo tono basso e roco con un forte accento, e sentirlo irritarsi così mi fa ridere, dato che sta difendendo la sua passione per un gruppetto commerciale.

«Ma no, non mi disturba per niente, tranquillo!» non riesco trattenere un sorriso.

Appena capisce la mia reazione si tranquillizza un poco, e mi spiega che segue le cantanti fin dal loro esordio.

«Quindi qual è la tua canzone preferita?»

«Non so, non ne ho una» esita «anche perché se dicessi che è cantata da una girl band mi prenderebbero per frocio» ride nascondendosi dietro i ricci lunghi.

Sicuramente questo ragazzo che ride per la sua stessa battuta non è lui, ma per la mia felicità faccio finta che lo sia.
Scherziamo insieme e parliamo di cose stupide finché non incomincio ad avere sonno. Mi sento rilassata, tutta la stanchezza dello scorso allenamento si accumula nei muscoli.

È l'una che i miei occhi si socchiudono, non so bene dove sono.

Sento il peso di una coperta arrivarmi sulle gambe, ha il suo profumo.
Borbotto un ringraziamento e mi addormento definitivamente.

The Unsaid | Wattys2017Where stories live. Discover now