Capitolo XVI

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Hyris, 12 giugno 1997

Posteggio la moto vicino ai garage, dove sono accatastate, in un mare di sporcizia e polvere, le ferraglie dei palazzi dell'isolato: quattro edifici orrendi, dei blocchi di cemento bucati da finestre piccole e persiane sempre abbassate.

Non un terrazzo, non un vaso di fiori.
L'unica goccia di verde sono i rovi e i cespugli selvatici che crescono incolti dall'altro lato dell'ampia strada su cui danno i condomini, dove si trova anche un cantiere abbandonato cinto da una ringhiera.

Giro un paio di volte su me stessa, aspirando l'aria in cui Riley vive ogni giorno.
È torbida, umida, sento la nebbia alleggiare che, pur essendo estate, è ancora più insistente del normale.

I vestiti costosi che ho addosso sono fuori luogo, in questo ambiente. Sembra come che il bitume che sta sotto le mie scarpe voglia intaccare i petali rosa e rossi dell'abito di crêpe bianco.
Sono l'unico, esile fiore che resiste tra le crepe di un muro di mattoni.

Mi incammino verso l'ingresso portando dietro i veli del vestito corto, che si sono decisi a non rimanere in ordine lungo le gambe.

Spingo la porta d'ingresso che, come al solito, è tenuta socchiusa da un pezzo di legno.
Le otto rampe di scale per il quarto piano sono abbastanza difficili da fare tutte d'un colpo, ma non demordo.
Soprattutto se all'arrivo si trova una sorpresa, come ad esempio la porta con il cognome Ashlen semiaperta.

Benedico il momento in cui ha deciso di non chiuderla: mi ha risparmiato l'imbarazzante momento di vederlo di fronte a me sulla soglia senza sapere cosa dire.

In punta di piedi, varco la soglia senza suonare né bussare. So che non é il massimo del rispetto, ma ormai ho capito che di rispetto ce n'è sempre stato poco, tra noi due.

Ho il batticuore dall'ansia. L'appartamento é immerso nell'ombra. Mi dirigo verso la
stanza di fronte a me, l'unica dalla quale sembra provenire un po'di luce.

Considero l'opzione di spiare dal buco della serratura, ma un attimo dopo mi accorgo che la porta non é chiusa del tutto.

Allungo il collo verso lo spiraglio di luce, ma subito sono costretta ad appiattirmi contro il muro, perché Riley é davvero vicino.

Che diavolo sta facendo?

Mi sento la protagonista di un film di spionaggio, però con meno sangue freddo. Mi tremano le ginocchia al solo pensiero che lui mi veda.

Non riesco a capire. É in piedi davanti alla scrivania e armeggia con la radio. Ha la maglia sudata e i capelli tutti arruffati.

Mi avvicino di poco e mi accuccio dietro lo stipite, cercando di fare il più piano possibile.

Ora lo vedo bene. Dallo stereo é appena incominciata una canzone allegra, lui ora é nel mezzo della stanza. Sta ballando.
Si muove con calma, i suoi movimenti sono sicuri. La moquette grigia assorbe il suono dei passi leggeri.
Con gli occhi chiusi, schiocca le dita a ritmo.
I capelli mossi ricadono ogni volta sulla fronte corrugata, che esprime al massimo la sua concentrazione.

Non capisco se quello che vedo é reale oppure se i miei sogni si stanno proiettando nell'aria.

Non l'ho mai visto così esposto, sciolto dall'estenuante rigidità. Guardarlo è uno spettacolo meraviglioso.
Sono catturata dai suoi gesti, da come si impegni comprendere la melodia, da quanto sia dolce quand'è così assorto.

I muscoli sulle spalle si distinguono perfettamente anche sotto il tessuto della maglietta, la pelle riluce ai raggi del sole fioco. Il suo corpo che danza é l'espressione di una voglia che cerco di tenere a bada.

The Unsaid | Wattys2017Where stories live. Discover now