Capitolo V

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Riley, 23 novembre 1996

Il vento che nasce dal Lee mi soffia addosso, appiccicando i capelli alla fronte.
Fa così freddo che non sento nemmeno più le dita; sto cercando di tenerle al caldo nelle maniche della maglia.

Sono venuto qui verso le quattro, perché non sapevo che fare, ma non pensavo che in venti minuti si sarebbe alzata la nebbia in questo modo.
Quanto vorrei trasferirmi al sud, in Francia, o in un cazzo di posto in cui non ci sia questo tempo che c'è in Irlanda.
Alla fine, però, ci sono affezionato anche alla nebbia. Dio, sembro un ottantenne che non è mai uscito fuori dal suo paesino.
Questa panna che alleggia in ogni angolo di Cork mi ha fatto capire che le cose grigie sono le più brutte e che devono sempre stare lontane da quelle colorate.

La vedo di fronte al mio naso.
Ma se mi avvicino per guardarla meglio, sparisce.
E se mi avvicino un altro po' per osservare quella più lontana, scompare di nuovo.
La puoi rincorrere anche per sempre, non potrai mai avere tra le mani la sua concretezza.

Voglio poter finire nella nebbia, quando non esisterò più.

All'improvviso un crac mi risveglia dai miei pensieri.

Ammetto di avere paura.
Come si può non essere spaventati se, nel parco pubblico deserto dall'atmosfera fuligginosa che non ti lascia vedere ad un palmo dal naso, c'è una persona da qualche parte?

Cerco di calmarmi.
Forse era solo un ramo.

Mi alzo e mi muovo attorno all'altalena.
Rischio di inciamparmi tra le radici spuntate dei cespugli che contornano l'area, non vedo neanche dove metto i piedi.

Sto per scavalcare una delle due travi che tengono in piedi verticalmente la struttura quando qualcosa o qualcuno mi travolge camminando speditamente.

Cado all'indietro per l'urto, che unitamente allo spavento è stato forte.
Ahia, il sedere. E anche i palmi delle mani.

La persona lancia un urlo che dura pochissimo, ma quanto basta per farmi capire che è una voce femminile.
La mia sfiga in questi giorni sta raggiungendo i più alti picchi.

Rimango paralizzato sulla terra sassosa, tenendomi seduto con le braccia indietro.
Non so seriamente cosa dovrei fare.
Intanto la donna si alza e mi punta una torcia in faccia. Devo chiudere gli occhi per forza, odio la luce.

«Che stai facendo?» mormoro parandomi il viso con una mano.

Quando sono in situazioni diverse dal normale, la mia voce si abbassa di un tono e diventa completamente scordata, più di quanto non sia già ruvida di suo.
La odio, non riesco mai a farmi capire.

«Riley

Oddio, no.
Non lei.
Non adesso.

Mi porge una mano per aiutarmi a rialzarsi.

Mi muovo a ritroso tra i ciuffi d'erba umidi di brina, sarebbe stato meglio trovarmi davanti un assassino piuttosto che questa oca.

Mi alzo velocemente come se dovessi scappare, ma poi la testa gira velocissimo e non capisco più dove sia la strada e come correre.

Sono come quegli animali appena usciti dalle gabbie, scombussolati, che non hanno la minima idea di cosa fare del loro corpo.
Ciondolo avanti e indietro finché non ho ripreso l'equilibrio almeno un po'.
Lei mi sta ancora fissando.

«Vai via» il mio respiro è affannoso e non accenna a tornare normale.

Dopo aver realizzato il fatto che non sia una persona del tutto sconosciuta e che paia innocua, trascino le gambe per sedermi sull'altalena più distante. Non appena stringo con la destra la catena gelida di acciaio, mi accorgo che il palmo destro sta sanguinando.
Il ginocchio non bastava.

«Ma che ti sei fatto?» è dietro di me, la sento.

Male, forse? Non capisco perché le persone pongano sempre le domande di cui conoscono già la risposta.

Silenzio mentre mi tolgo il pezzetto di ghiaia dalla mano.
E anche dopo.

Si è seduta accanto a me, di nuovo.
Perchè queste altalene sono così accostate tra loro?
Mi chiedo come faccia a conoscere questo posto, imbucato tra centro e periferia. Una come lei dovrebbe stare da altre parti, quelle colorate di luce, sicure.

Anche la mia faccia è fottutamente sporca di terra mista ad un po'di sangue della mano.
Con la maglietta pulisco lo zigomo. Mi fa impressione vedere il bianco tingersi di bordeaux, ma non ho altro.

Alzo lo sguardo per vedere che sta facendo. Vedo ogni dettaglio del suo viso. Le poche lentiggini sembrano dei papaveri di fuoco in un prato lucente. Solo ora posso accorgermi di come abbia dei tratti singolari, che non ho mai visto in altre persone. Ognuno è diverso, ma lei particolarmente. Un'armonia angelica, labbra serrate e ciglia esageratamente lunghe.

È ancora più vicina di quanto pensassi. Guarda la mia ferita.

In questo istante vorrei nasconderla perché guardasse me.

Ma cosa sto dicendo?
È solo una bambina che gioca a fare la cattiva.

Come se mi avesse letto nel pensiero, i suoi occhi arrivano sui miei.
No, preferivo quando osservava il sangue.

Il suo sguardo non ha niente di particolare, ma ci leggo più cose tristi di quante avrei potuto credere.
Si avvicina e mette una mano sulla mia spalla.

«La smetti di toccarmi?»

Ma non la smette.
Rimango senza una risposta e con le dita ancora su di me.
Le catene dell'altalena cigolano lievemente ogni volta che si protende verso di me, come se anche loro la volessero ammonire.

«Che occhi strani che hai» ripete per la seconda volta. «Guardami di nuovo» quasi mi pregasse, e io rialzo la testa mentre mi insulto mentalmente e mi chiedo quale forza mi imponga di obbedirle.

Silenzio a parte la sua voce chiara e pulita che risuona nel vuoto di nebbia.

«Non sei innamorato» mormora con un' espressione che non riesco a decifrare.

No, non sono innamorato.
Non ho bisogno che qualcuno me lo dica per saperlo.

The Unsaid | Wattys2017Where stories live. Discover now