Capitolo IV

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Riley, 15 novembre 1996

Concentrati. Non pensare a lei.
Concentrati.

Non riesco ad aspettare.
E già di per se'questo è preoccupante.

Sono soltanto impaziente e terrorizzato di averle fatto qualcosa.

Non voglio fare male alle persone, benchè di solito siano loro ad andarsele a cercare.

La mia cattiveria non la intaccherà più. Lei, come tutti gli altri, ha quel poco di umanità che a me manca. Non posso sottrargliela.

Chiudo gli occhi, forse questo aiuta e magari riesco anche ad addormentarmi.
No, no, scherzavo.
Ritiro l'ultima affermazione, non dormirò mai. Se ieri sono riuscito ad assopirmi per un paio di ore, posso essere sicuro che da stanotte ai sei giorni successivi le occhiaie saranno un costante crescendo.

Le braccia di Morfeo non riescono proprio ad acciuffarmi. Se attendo la morte non posso aspettare anche il sonno. Il mio corpo riposa due-tre ore alla settimana e certamente stasera non lo farà.

Mi rigiro un paio di volte nelle lenzuola.
Che caldo. Le tiro giù.
Oh, no.
Che freddo. Le ritiro su.

Tento di girarmi per vedere che ore sono, ma subito qualcosa mi strattona per i capelli e costringe la mia testa a stare dov'era prima.

Uffa, non è possibile che ogni volta i gomitoli che ho in testa si impiglino ovunque.
Sono impossibili da districare, quindi praticamente avrò passato un terzo della mia vita cercando di snodare i capelli dal cuscino.

La cosa più razionale da farsi sarebbe andare a tagliarli, ma è risaputo come io sia tutto tranne che razionale e che alla fine, anche se mi fanno dannare ogni secondo, ci sono affezionato. È strano affezionarsi ad una parte di se'stessi, ma spesso mi tengo un po'troppo in considerazione.

Ecco, diciamo che è un rapporto di amore-odio. Tutti dicono che questo tipo di relazione è la più forte, quindi i ricci biondi sono ancora con me.

Nel nervoso intervallo tra la notte e l'alba continuo ad impormi di non pensarla e mi chiedo che accidenti farò domani mattina quando me la troverò davanti.

In realtà sono le 4:56 e sto aspettando con ansia che la sveglia per le cinque suoni. Una sorta di autorizzazione per illudermi che l' insonnia non sia una patologia e per cominciare la vita di tutti i giorni, se vita si può chiamare.

Immediatamente mi alzo come una molla e vado nel bagno per fare la barba e tutte quelle robe che dovrebbero renderti presentabile ma in realtà non lo fanno.
Anzi, che hanno una possibilità su cento di alzare di un gradino la tua presentabilità rispetto a come saresti di solito.
Tipo che con la barba faccio schifo e che senza faccio schifo ugualmente.

Apro il frigo per cercare qualcosa da mettere sotto i denti, ma solo a guardare mi viene da vomitare.
Non potrei vomitare un bel niente, in realtà, perché neanche ieri a cena ho mangiato.
E neanche ieri a colazione, ma questi sono dettagli che non importano.

Arrivo a scuola tra i primi, come sempre.
Le ore di lezione passano e io sono sempre più invisibile, una cosa che mi fa sentire sicuro.

Aspetto nel mio infinito finchè non arriva la terza ora, quella di fisica.
È appassionante studiare tutte quelle formule che tentano di spiegare come mai esistiamo. A volte mi viene da ridere, perché la materia che preferisco è solo la grande rappresentazione dell'illusione umana.
Si tenta di razionalizzare quello che succede intorno a noi, spesso facendolo così inutile, complicato. Come me.

Ho finito i sette problemi in trentotto minuti e nove secondi, quindi devo stare ad aspettare ancora un po' prima che suoni.
Maledetti questi dieci minuti di attesa, mi lacero lo stomaco se penso a cosa fare quando la vedrò.
Mi sembra un evento impossibile, eppure è così vicino nel tempo.

Appena la vedo torno all'istante a fissare il pavimento.

Dio, che ansia.

In realtà per le cagate che dice mi sta antipatica, ma fa quell'effetto tipico di tutte le persone di sesso femminile quando si avvicinano a me, ossia quello di non capire più niente e di diventare ancora più odioso del solito.

«Ci si rivede!» esclama sedendosi; è proprio perspicace.
Non merita risposte.

«Ieri mi ero dimenticata di dirtelo. Mi chiamo Hyris» le sue parole sottointendono uno scambio di presentazioni.
A me non piace farle.

«Riley» borbotto.

«Eh?» oh mio Dio, va bene che il mio nome è strano - anche se poi neanche tanto, ma allora è proprio scema.

«Ri-ley !» scandisco bene le sillabe.

«Non l'avevo mai sentito.»

«Adesso sì» un piccolo frammento di sguardi che si uniscono, ma subito dopo ritornano al loro posto.

«Che occhi strani che hai» dice. Mi verrebbe da risponderle "per guardarti meglio", come nella favola del lupo che mi raccontavano da piccolo, ma capisco che non sia il caso: oltre al fatto che io non le voglio prestare attenzioni, sembrerei uno psicopatico.

«Non li guardare, allora» opto per una frase più nel mio stile.
È orrendo parlare con le persone. Devi fare tutta una strategia, inventare delle alternative e allo stesso tempo indovinare cosa l'interlocutore stia pensando.
È estremamente confusionario e io con il disordine mi sento male.

«Perché non mi guardi più?»

Sto per risponderle "perché di sì", ma non ne ho il tempo perché sento le sue dita sul mento che costringono a girarmi verso di lei.
Accidenti, non pensavo fosse così diretta.

Mi alzo di scatto. Non mi piace la cosa che ha appena fatto; odio essere toccato.
Me ne vado subito via.

***

Sembra che le sue dita mi abbiano fatto una scottatura nel punto in cui hanno preso la mia pelle.
La vedo ancora, ovunque. La sua immagine si imprime sotto le palpebre appena abbasso le ciglia.

I petali stanno incominciando a posarsi sugli occhi chiusi. Sono lisci e leggeri, quando arrivano su di me.
Non finiscono più di cadere.
Centinaia, migliaia, mi ricoprono completamente.

Ad un certo punto mi rendo conto che sono troppi.
Così tanti che non posso respirare.
Quei fiori così delicati stanno formando una gabbia con le sbarre che intrappola la mia anima.

Vorrei potermi alzare ma sono trattenuto giù, la spina dorsale viene legata al letto dai rovi rossi.
Anche i polsi. Anche le gambe. Anche il petto, il collo e il viso.
Non sento il cuore battere. La mia testa non mi fa capire quale sia la terra e quale sia il cielo.

Come nelle giostre, giri e giri senza mai fermarti. Non sai quando finirà e non puoi guardare fuori per capirlo perché ogni cosa è confusa.

Respira.
Raggi di sole che non è nato mi tagliano in pezzi affilati. Sotto i polmoni quella fitta, come se io non esistessi più e tutte le schegge convergessero in quel punto del mio corpo.

Alzati.
La solitudine è un peso immenso. Preme facendoti sprofondare.
Tutte le piccole felicità mi si rivoltano contro, legandosi tra di loro per formare una rete di acciaio.

Voglio poter morire adesso. Annullarmi da qui.

The Unsaid | Wattys2017Where stories live. Discover now