Capitolo XI

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Riley, 4 febbraio 1997

Non capisco niente.
Ciò che dicono è un miscuglio di suoni; la luce del sole una massa chiara che pesa sulle mie palpebre.

L'unico rumore che riesce ad arrivare alle mie orecchie è il cigolio dei cardini di una porta. La cosa che mi infastidisce più di tutto dopo essere toccato da mani che non conosco.

Sono stanco. Non voglio pensare ne' ricordare. Solo fuggire.

Solo il metallo della carrozzeria che si schianta contro il mio fianco, poi niente.
So che non l'ho fatto io.
Non sono andato incontro apposta a quella macchina in corsa. Non ho la minima idea di come la mia carne sia stata schiacciata dal peso del motore.
So che non l'ho fatto io.

È passato del tempo, perché, già quattro volte distinte, un cerchio freddo mi è stato messo sul petto da dita estranee.

La porta stride annunciando l'entrata di un essere umano.
Vuol dire che ci sono due occhi che mi guardano. Odio essere guardato.

Vorrei potermi alzare e ordinare a questo qualcuno di portarmi fuori dalla prigione, ma i miei occhi si aprono appena e le corde vocali sono un unico nastro sfibrato.

Quella persona che mi ha investito è venuta a trovarmi. Un fumatore, dal suo odore. Era stressato e in imbarazzo, dalla voce. Aveva fretta, dai movimenti rapidi e nervosi. Continuava a rigirare nel dito un anello, che sono certo fosse la fede.

Ho fatto finta di non poter aprire gli occhi perchè avrei incontrato il suo sguardo in pena per me. Odio la compassione, mi fa sentire debole.
Ha firmato un sacco di carte - sentivo la penna grattare sul foglio - e ha pagato una somma per le cure. Odio la generosità, mi fa sentire vulnerabile.

***

Entra il dottore, quello che mi tocca e intanto scrive su un foglio. Lo capisco perché la stanza si inonda di un odore di anice disgustoso.
Il suo dopobarba mi soffoca; darei qualsiasi cosa pur di andarmene.

Poi però ci sono anche altri passi che si fermano davanti a me, nel punto della sedia vicino al letto. Rimaniamo solo io e loro, il dottore va via.

Apro gli occhi un poco, ma non vedo altro che il soffitto a pannelli grigi e il condotto di areazione. Le mie palpebre si abbassano subito dopo, le sento pesantissime e sono già stanco.

«Ciao, Riley. Sono io.»

È lei.

Non ha bisogno di specificare il suo nome.

Il suo tono limpido si distingue fra mille.
È arrivata. Non ero certo che l'avrebbe fatto.

Vorrei poterla vedere in faccia ma il collare impedisce tutti i movimenti. Le devo chiedere se riesce a farmi scappare, è l'unica che mi conosce e che può essere d'aiuto.

L'infermiera diceva: "respira a fondo ed emetti suoni brevi". Allora ho tentato di parlarle, ma ho incominciato a tossire così tanto che hanno dovuto farmi una dose di sedativi.
La voce roca che ricordavo di avere è diventata una radio senza segnale.

Appena cerco di dire qualcosa lei si allarma tutta mormorando cose tipo «No, no, non ti sforzare» e accarezzandomi la fronte.
Nemmeno lei è dalla mia parte.

Fa malissimo in qualsiasi punto mi tocchi, in testa particolarmente perché ho il cervello schiacciato tra due lastre roventi.

«È stato un brutto colpo, ma fra tre mesi dovrebbero dimetterti.»

Tre mesi? Ancora tre interminabili mesi rinchiuso in questa cella?
Non ci voglio credere.
No, fai che abbia sbagliato ad informarsi.

Forse riesco; se mi sforzo di girarmi posso vedere i suoi occhi e capire se dice il vero. Reclino un poco il collo anche se reggere il peso della testa mi fa vedere le stelle.

Non riesco ad aprire completamente la palpebra destra perché sono sicuro di avere una botta gigantesca.

I nostri sguardi si incontrano, anche se per un secondo soltanto. É un sollievo potermi immergere in una sensazione familiare e sicura, che mi ricorda quando ancora non ero capitato su questo letto. Il calore dell'emozione si irradia nel mio petto anche quando riabbasso gli occhi, mi riempie le guance e le dita di energia.
Ma non sono l'unico a risvegliarsi dal torpore, qui dentro.
L'elettrocardiografo prende a suonare come un allarme e Hyris si alza subito per vedere cosa succede.

Non sa che tra venti secondi entrerà un'infermiera a controllare il battito, cambiare gli attacchi e fare l'iniezione di antidolorifico.

***

Sono una bambola di pezza nelle mani di una donna in camice bianco che mi scopre, pulisce ferite, cura cicatrici, sorveglia fratture, toglie aghi dalla carne e ne infila di altri.

Perché Hyris è qui da qualche parte nella stanza e sta vedendo?
Come mai la lasciano restare?

Chissà cosa sta pensando di me.
Le faccio orrore.
Mi odio per essermi ridotto a questa situazione di morto vivente. La cosa che voglio di più in questo momento è alzarmi e spedirla fuori dalla porta.

Sto iniziando seriamente a pensare che mi legga nel pensiero.
Appena la tizia se ne va trascinandosi il suo carrello delle torture, Hyris fa per seguirla.

«Credo che l'orario delle visite sia finito, un giorno di questi però torno.»
Sono sicuro che non manterrà la promessa, dopo che ha assistito al trattamento da carne per macello che mi riservano.

Adesso è diverso da quando siamo seduti vicini nel cortile della scuola.
Lì posso nascondermi in qualunque modo voglio, ma, disteso su questo letto di disinfettante e pareti azzurrine, non sono più sicuro di quale sia il mio punto di vista sulla nostra prospettiva.

«Spero che tu non l'abbia fatto apposta» dice, probabilmente con la mano pronta a spingere la maniglia.
Anche i muri sanno a cosa si riferisce.

Vorrei poter dire che no, non mi sono mosso di proposito sulle strisce pedonali.
Ma é bastato un passo per arrivare in una stanza di terapia intensiva.

Solo ora mi rendo conto di quanto sia stato sbagliato. Ma i desideri a volte si avverano, indipendentemente dal fatto che siano giusti o meno.

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