Capitolo VI

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Hyris, 12 dicembre 1996

Butto i libri nello zaino di fretta, non so neanche se sto mettendo quelli giusti.
È che se non mi vede arrivare dopo un po' se ne va.
Quanta pazienza, eh?

Metto il giubbotto e scendo le scale.
Nel corridoio vado a sbattere contro un tizio e gli faccio cadere tutti i quaderni che ha in mano, ma a differenza dei film scappo via lasciandolo col sedere per terra.

La maglia leggera che porto non ha intenzione di stare ferma e il vento mi sta congelando.

Oh, per fortuna è ancora lì. All'angolo del muro che circonda la scuola, tutte le persone gli passano davanti.
È davvero bravo ad essere invisibile. Fissa per terra e qualche volta alza la testa per vedere se arrivo, ma altrimenti torna con gli occhi al marciapiede.

Di solito, appena mi nota, va in ansia. Lo riesco a notare da cinquanta metri che inizia a torcersi il bracciale e a tirarsi i capelli indietro.

Oggi, però, mi guarda immobile. È difficile rimanere indenne allo scontro prepotente dei suoi occhi su di me. Abbasso i miei, in imbarazzo, senza però smettere di avere la sua figura proiettata davanti a me. Immagino di essergli accanto, alzarmi in punta di piedi per arrivare al suo livello perchè non sarò una cima, ma è lui ad essere alto. Le ossa che riesco a sentire anche solo sfiorandolo, i miei polpastrelli ritraersi dopo aver toccato la sua pelle gelida. Magro, pallido, freddo, eppure tra le sue braccia è come sentirsi a casa. Forse è quel sorriso che raramente gli ho visto fare, quel tiepido sole che gli fa increspare le guance in tanti piccoli segnetti. Ma ora è serio che più di così non si può, quindi prevedo che oggi sarà una giornata con nubi e schiarite.

Improvvisamente sento caldo anche se fino ad un momento prima stavo tremando.
Se lui è nervoso, io posso giurare di esserlo il triplo. Mi impongo di fermare questo affanno.

Siamo distanti di una decina di passi e li sto percorrendo come se dovessi andare al patibolo.

Dato che ha iniziato di sua spontanea volontà, non dovrebbe dargli fastidio accompagnarmi. In realtà mi sembra che gli pesi più di altra cosa.

Appena gli sono accanto e cerco di guardarlo in viso, riprende la modalità di sicurezza e incomincia a camminare senza spiccicare parola.
È estremamente attento a ciò che faccio, i suoi pensieri anche se non sembrerebbe sono fissi sulle mie azioni. Difatti, appena sorrido tra me e me, lui subito alza lo sguardo.
Poi però lo riabbassa, perché si ricorda che deve sembrare indifferente.
Stronzo, ti ho beccato.
Un punto per me.

«Dove vai?» si allarma quando giro a sinistra, verso il centro.

«Andiamo a fare un giro lungo il Lee. Ti va?»

Come risposta riempie con aria incolore i due passi che ci separavano.

***

Prima abbiamo mangiato un gelato che era più grande delle nostre facce, ma non è stata un bellissima idea perché adesso ho mal di pancia e ancora più freddo.

Stavo morendo dalle risate quando il gelataio ha chiesto a Riley perché non pagava anche per la sua "bella fidanzata". Sono riuscita a stento a dirgli che non lo ero, vedendolo viola dalla vergogna non sono riuscita a resistere.
Le sue lentiggini sono diventate un'unica macchia sul viso e alla fine ha lanciato un'occhiata al povero uomo che se non ci fosse stato il ghiaccio dei gelati sarebbe morto incenerito.

Ora siamo seduti su una panchina sulla riva del fiume.
Io ammiro le casette basse e colorate tutte in fila dall'altra parte del Lee, che tutti i turisti fotografano quando vengono a Cork.
Riley invece osserva le acque verde scuro senza riflessi come se ci volesse annegare.

Ho ancora in testa quella sua espressione quando gli ho detto che non era innamorato. Ogni atomo del suo corpo gridava odio mentre lui era zitto, quindi pensavo fosse una sorta di autoconvinzione.
Che è vacillata quando ha sentito le mie parole, come se la corazza che si era creato avesse potuto distruggersi con un mio tocco.
Poi s'è subito ricomposto, sembra non gli piaccia far vedere come si sente.

Ho passato abbastanza tempo con lui per affermare che è tutto tranne che empatico: se tento di dirgli cosa penso non capisce nulla; solo quando ci scappa uno sguardo incomincia a crearsi un legame.

«A cosa stai pensando?» Da quando ha nascosto il viso tra le mani, tenendo su i gomiti sulle ginocchia, sono passati più di cinque minuti. Sono già entrata nell' ottica del dovermi abituare a scenari simili: crisi di sfiducia, attacchi cronici di silenzio.

«Niente.» Dimenticavo, è meglio aggiungere all'elenco anche risposte telegrafiche.

È da un po' che lotta in silenzio contro i suoi ricci biondo miele, togliendoli dalla fronte anche se subito dopo ricadono come prima. Glieli tiro su, dato che coprono il suo viso.
Mi perdo a guardare la linea della mascella, quasi sporgente sulle guance scarne, vedo le lentiggini dal lato destro del suo naso e delle guance: sono distribuite come le mie, ma sono molto più piacevoli e si notano meglio sul suo profilo, che non è di sicuro appiattito come il mio. Trascino le dita fino al collo, un po' più giù verso la spalla. Appena lo sfioro si irrigidisce e alza il capo.

È come se un involucro lo rivestisse, uno scudo fatto del suo carattere selvatico.

Ma non so cosa ci sia sotto.

The Unsaid | Wattys2017Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora