Capitolo VII

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Hyris, 17 dicembre 1996

C'è un alveare di felicità dentro la mia testa. Le api la pungono e la irrorano di miele allo stesso tempo.

Mi viene da saltare per il corridoio, ma è meglio se non lo faccio.
Butterei per terra tutti i soprammobili che ci sono in casa mia: si tratta di una bella fortuna.

Non sono sicura di ciò che sottintende il rapporto tra me e Riley.
È che siamo sia senza colori sia coperti di brillantini quando i nostri occhi si incontrano.

Non è un'attrazione fisica.
Lo sguardo dolce ma criptico, che splende quando ci guardiamo. Quando mi fa dannare con quella voce roca e bisbigliata, parlando così poco, ogni volta che apre bocca le mie orecchie sono aperte e il cuore non vede l'ora di sentire quella tonalità che infiamma di brividi la pelle. Il suo corpo che mi completa, le espressioni stranite e il nervosismo nelle mani tremanti prima di salutarmi. Non c'entrano niente, tutte apparenze.
Scherzavo, c'entrano eccome.

Appena si avvicina mi prudono le dita, perché vorrei intrecciarle alle sue.
Dovrei aver imparato da come è andata a finire con Aron, nonostante ciò ho la straordinaria capacità di mandare il cervello in pappa proprio quando c'è da ragionare.

Contrariamente alla morale, alle presunte vocine nella testa che mi strillano di girare alla larga da Riley, appena lo individuo tra la marea di ragazzi di quinta, spintono la gente sulle scale per arrivare in fretta da lui.

Lo saluto, é stretto all'angolo del corridoio.

Oggi non sembra così cattivo come è sempre. Riesce a guardarmi mentre mi dice buongiorno e le sue labbra si tirano in una sottospecie di sorriso.
Sarà perché oggi piove e nel corridoio la luce diversa mi fa vedere ciò che non c'è.

«Che ci fai attaccato all'estintore?» sento già di non aver fatto una buona domanda.

Balbetta un «niente...», allontanandosi precipitosamente dalla cassetta dello stesso colore di cui stanno diventando le sue lentiggini.

«Oggi sono particolarmente di buon umore» decido di dire, con l'illusione che magari potrei contagiarlo.

Borbotta che ne è contento, anche se dalla sua faccia si presume tutto tranne che gli faccia piacere.

Non so perché mi ostino a frequentarlo.
Tutto di lui vuole che io me ne vada, però io inspiegabilmente vedo che nei suoi pensieri c'è una calamita che desidera trattenermi.

«Tu?» tento di inserirlo nella conversazione. È davvero faticoso e dopo un po'diventa uno stress. Forse mi sto ostinando a scavare una terra sotto la quale non ci sono altro che sassi.

Prendo una boccata d'aria, perché in questo atrio ci sono troppi ragazzi e poco ossigeno.

«Come sempre» mormora tirandosi indietro i capelli.

Questo gesto lo fa una miriade di volte quand'è nervoso, insieme a leccarsi le labbra, scrocchiare le dita, fare contorsioni con le braccia, inspirare ad occhi chiusi, tirare la mascella in un modo strano che gli fa tendere tutti i nervi sul collo, corrugare la fronte, stringere le palpebre, sfregare le mani sui jeans e tirarsi giù la maglia perché è alto, gli sta troppo corta e stringe sui bicipiti.
Forse la mia capacità di osservazione su di lui è un tantino ossessiva.

Adesso sono scesi quelli delle prime, e sono quattro classi di trenta alunni ciascuno. Il liceo di Cork è piccolo e gli studenti vengono ammassati come formiche.
I ragazzini si sparpagliano al centro del corridoio, obbligando noi dalla quarta in su a schiacciarci alle pareti.

Riley è attaccato al muro, io dietro.
Rimaniamo vicinissimi per un tempo che sembra non finisca più.
Se allungassi ancora un po'la testa, i nostri nasi si sfiorerebbero.

Mi guarda per un secondo con aria completamente persa e terrorizzata, poi torna a fissare un punto lontano.
Il suo è un tentativo di sembrare indifferente, ma vedo come il suo pomo d'adamo sale e scende veloce mentre deglutisce a vuoto.
Sembra che stia lottando per liberarsi da questa calca infernale che lo tiene attaccato alla gola di Riley, il quale a sua volta aderisce sulla patete al mio corpo.

Dopo svariati tentativi che in realtà ci hanno fatto strusciare uno sull'altro, è riuscito ad allontanarsi.
Spintona la gente perché vuole disperatamente andare via da me.

Rimango appoggiata all'intonaco che conserva ancora un po' del caldo della sua schiena.

Riley, 5 gennaio 1997

There is no need to say you love me,
It would be better left unsaid.
I'm, giving you everything
All that joy can bring, this I swear
And, all that I want from you
Is the promise you, will be there.

Ma quanto sono brave le mie Spice Girls.
I loro testi graffianti, le melodie energiche e i loro stili che si completano a vicenda.
Ma non mi piace soltanto la loro musica, c'è molto di più. O meglio, c'è Victoria.
La Posh Spice, la più bella, lo sguardo più sensuale di tutte, il corpo perfetto, lo stile innato anche nel cantare. Quanto vorrei poterla toccare, poterla vedere sul mio letto.

Incrocio le gambe davanti alla radio, la mia amica dei tempi morti.
E dato che i tempi morti sono la mia esistenza, è proprio la compagna di una vita.

Appena la canzone è finita, incomincio a cambiare le stazioni e modificare i volumi pensandole tutte e cinque sul mio letto.

Mi giro sperando che il mio sogno diventi realtà, ma alle cinque dee si sovrappone l'immagine di Hyris quel maglioncino rosa che svolazza da tutte le parti e che le mani del vento stanno levando dal suo corpo.

Ce l'ho così impressa nella testa che la sua immagine è davvero seduta sul bordo del letto, gli occhi chiari che sembrano le acque di un lago, le labbra esangui, i capelli lisci e le gambe che non sembrano nemmeno vere di quanto sono perfette.

No, no, ma cosa sta succedendo?

Io la odio.
Lei non esiste.
Non conta niente in me.
Deve distruggersi, adesso.

Tiro con tutta la forza che posso la prima cosa che mi ritrovo in mano contro il muro sopra il letto.
Dove prima c'era il fantasma di quella stupida ragazzina, adesso solamente i pezzi rotti della sveglia.

Il rumore che ha fatto schiantandosi alla parete è lo stesso che nella mia testa ho sentito quando Hyris si è premuta contro di me nel corridoio della scuola.
Estremo malessere, una trappola.
Ho bisogno di uscirne subito.

Sono le cinque del mattino, dice il canale radiofonico. Lascio che la voce robotica continui a parlare mentre io prendo il cellulare e scappo da questa camera di tortura.
Oggi a scuola non ci vado.

***

Cammino per tutti i viali della città, non voglio sentire niente, vedere niente, pensare a niente.

Le ore passano, il sole rende azzurro il cielo, dalle bare delle loro case la gente risorge. Sono le dieci del mattino, almeno la meridiana che è su una casa segna quest'ora.

Dopo molto tempo sento il telefono vibrare nella tasca, il nome sul display mi riporta bruscamente alla realtà.

Hyris mi chiede perché non c'ero.
«Così.»

Dove sono.
«Non lo so.»

Cos'è successo.
«Niente.»

Se voglio che venga da me.
«Ok.» Non so perché le parole escano dalla mia bocca senza passare per il cervello.

Non ci sono con la testa. Non mi sento qui, solamente l'asfalto che sdrucciola sotto i piedi lascia percepire al mio corpo che è vivo.

Me ne torno a casa perché sto iniziando a sentirmi perso e a non ricordare più nulla.
Non lo so come ho fatto a trovare la strada, non lo so come ho fatto a stare nove ore con la maglietta quando a Cork ci sono dieci gradi e la nebbia.

Non voglio sapere, non voglio nessuno.
Solo scomparire.

Mi butto sul letto, i pezzi di metallo della sveglia mi pungono tutto il fianco, non mi interessa.
Magari taglieranno così profondamente che di me non rimarrà più nulla.

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