Capitolo XIX

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Riley, 24 agosto 1997

La mia immagine riflessa allo specchio rivela tutto ciò che non serve dire. La barba sul mento, la maglia che puzza di chiuso e le braccia di chi non si allena da settimane.

Niel mi ha convinto ad iniziare.
Non avrebbe dovuto, non con me.

Guanti.
Cuoio, odore acido e ruvidi al tatto.
Mi ha piazzato davanti ad un sacco inamovibile appeso al soffitto, una montagna dal peso spropositato.

Colpiscilo.

L'ho guardato, non avevo idea di come fare.
Poi ci ho provato, piano, appoggiandovi solo le nocche ricoperte dall'imbottitura.
Ho osservato i movimenti impercettibili del bersaglio che si propagavano dopo il colpo.

E dopo un'altro, più forte, e un'altro ancora.
L'istinto di sapere da sempre come funziona, la sensazione del colpo nella mia testa ancora prima di sferrarlo.
La voglia di togliermi di dosso la negatività. La soddisfazione di un contatto violento e animale contro un oggetto senza vita.
Sentivo Niel ridere piano, mentre mi osservava a braccia incrociate. Ma era come se non esistesse sul serio, come se tutto quello che avevo intorno non fosse davvero importante. Solo io. Io e la mia forza.

Non é cambiato nulla dalla prima volta. Adesso come allora, non voglio altro che sentire soltanto me. Sempre la stessa rabbia, quell'identica sensazione.
Niel mi dice che non tengo la difesa, resisto troppo poco, e che non dovrei tirare pugni a raffica fino a collassare dalla stanchezza.
Ha ragione. La mia energia si condensa in un paio di minuti di tensione e poi si accascia, facendomi pesare le spalle.

Dovrei restare attento, in simbiosi con l'avversario. Invece sono concentrato solo sul riversare quanta più potenza riesco per tramortire il sacco di colpi.

Forse é anche per l'epatite. Quell'ombra che non desiste mai, ma aleggia attorno a me in qualsiasi momento.
Rovina ogni cosa, con la sua morsa che toglie l'ossigeno.
Mi rinchiudo negli spogliatoi, perché nessuno veda  mentre mi piego in due dal dolore. Sopportare è dissacrante.

Quando mi guardo allo specchio, mi umilio ogni volta di più.
Le guance senza carne, la pelle a macchie giallastre.

Percorrendo il torace con la punta delle dita, lo sterno sporge al centro del petto e da esso si diramano le costole, in successione come delle onde.

Un altro Riley: aggressivo, inacidito, subdolo, terribilmente adulto e cattivo.

Ho perso anche l'ultimo briciolo di bellezza, quello che si rifugiava nei miei ricci biondi. Ora i capelli sono cortissimi, sembrano più scuri e ispidi.
Li ho tagliati da solo, nella paura che la chemio se li portasse via.
La lama produceva un suono fastidioso e insistente. Ho rimpianto ogni singolo gesto di quel giorno.

Dopo la dose di medicine delle otto, decido di scendere all'ingresso per prendere la posta.
Controllo che non ci sia nessuno sul piano, per non farmi vedere con la barba sfatta e la maglia sporca.

Mi siedo sul letto, con le gambe incrociate. Davanti a me ho la radio e due lettere. Metto spice e la prima traccia parte a volume alto.
Penso a Victoria, la sua pelle ambrata che risplende come se fosse ricoperta d'oro. Lo sguardo tagliente, oscuro, il più sensuale delle cinque.

Strappo la prima busta con il coltello.
Assicurazione sulla famiglia: proteggiamo le persone che ami.
Straccio immediatamente il foglio in due.
Perché qualcuno dovrebbe aver bisogno di pagare per tenere al sicuro chi vuole bene?
Non potrebbe dimostrarlo ogni giorno, in ogni gesto, per far sì che quelle persone non smettano mai di stargli vicino?
Accartoccio i due pezzi di foglio e li butto in un angolo del letto, per sgombrare i pensieri dalla mia testa.

La seconda lettera attira subito la mia attenzione, perché ne riconosco l'inconfondibile provenienza.
Il bordo a strisce rosse e blu, che da piccolo osservavo seduto al tavolo del soggiorno.
È casa, Waterville.
La mia casa e le mie persone.

La sfioro come se potesse scomparire da un momento all'altro. La stessa carta porosa e spessa, che sapeva di lavanda e centrini inamidati.

Le mie dita avvicinano la lettera al naso per sentirne il profumo di casa.
Tiro un sospiro di sollievo.
Mi erano mancati. Mi vogliono ancora bene e sono ancora importante per loro.

Certe volte ho la tentazione immane di tornare indietro, di volergli bene, di essere una famiglia.

La botola della soffitta, le pareti di legno verniciato di bianco, i biscotti alle mandorle dentro il latte caldo, il molo sul mare gelido e tumultuoso.
Le sensazioni mi affondano una dopo l'altra, a ricordo che momenti come quelli non si ripeteranno mai più.

La lama taglia veloce. Senza remore.
Non ha la percezione di cosa ci sia sotto, di cosa gli umani possano costruire su fondamenta di sabbia.

La scrittura tondeggiante di mamma si distingue da quella di padre e figlio, corsiva e tremula.

Dice che sono felici della mia vita a Cork, ma se ne ho bisogno la mia stanza è sempre libera.

Quando leggo ci manchi, sento il petto rompersi piano: un crepitio leggero che provoca lacrime di rimpianto, salate e impossibili da trattenere.

La mia coscienza mi ripete di non lasciarmi andare, é un ronzio assillante che mi mette in agitazione.

Ma per una volta mi farò guidare dai ricordi.
Lo decido ancora prima di capire quanto desideri abbracciarli.
Partirei prima di ora pur di ricevere del conforto.
Dopo molto tempo, mi accorgo di averne disperatamente bisogno. Perché sono solo.

The Unsaid | Wattys2017Where stories live. Discover now