Capitolo XX

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Riley, 15 agosto 1997

Ammorbidente e lacca per capelli. É il profumo dell'abbraccio di mamma, così forte da farmi tossire. I suoi gesti sono carichi di euforia, ha gli occhi pieni di amore. Le voglio molto bene perché non ha mai perdonato il fatto che io abbia voluto lasciare casa. Forse l'unica persona che abbia mai tentato di trattenermi vicino a se'.

Mi lascio stringere e guardare finché mio padre non spezza il momento con una di quelle occhiate la cui amara ma incolpevole cattiveria é riuscito a trasmettere anche a suo figlio. Fora il mio cranio da parte a parte con tutta la forza del rancore che serba.

Mamma fa posto ai quotidiani accatastati sul tavolo. Trascino la sedia al mio posto, quello di fronte alla finestra, che avevo scelto per poter vedere meglio il cielo con i miei occhi di ragazzino apatico che non voleva guardare in faccia i genitori a tavola.

Kelly mi lascia in pace, poi subito si precipita a preparare il té sulla piccola cucina nella stessa stanza del tavolo.
Papà si siede di fronte a me. Questa volta non posso guardare il cielo, non posso far finta di non esistere. Sono obbligato ad affrontarlo.

«Come mai questa visita improvvisa?» domanda senza giri di parole, ottenendo borbottii irati da parte di mamma, che é invasa dal terrore che io torni a scappare.

«Ci ha fatto molto piacere, invece. Stai bene nell'appartamento?»

Sarebbe bene che le rispondessi, che la facessi contenta perlomeno l'unica volta che riesce ad abbracciarmi dopo tanto tempo. Ma sono incapace di seguire percorsi alternativi, la strada diretta é l'unica che vedo in qualsiasi caso. Anche se le persone preferiscono le spiegazioni contorte, per illudersi che il tempo di una frase più complessa diminuisca la sofferenza dell'arrivare alla verità.
Non accontento nessuno. Mai.

Sgancio la bomba all'improvviso su due vittime ignare.
«Ho l'epatite.»

La moka scivola dalle mani della mamma e precipita nel lavello, con un tonfo sordo.

«Come sarebbe a dire?»
Papà ha l'atteggiamento di quando si rimproverano i figli perché hanno combinato qualcosa di assurdo, si sono cacciati in un guaio. Ma la mia é ben più di una marachella, ed é inutile, anche se comprensibile, che lui usi quel tono di accusa.

«Com-com'é possibile?» Kelly tiene ancora la bocca semiaperta, le mani ancorate ai bordi del rubinetto mentre l'acqua continua a scorrere.

«Perché diavolo non ci hai chiamati quando l'hai saputo?»
Le gambe della sedia stridono all'improvviso, quando papà si alza di scatto dalla sedia. Mi hanno sempre detto che ho ereditato il nervosismo da parte sua.

Rimango in silenzio. Devo aspettare che ogni loro reazione finisca prima di reagire. Sono tentato di rispondere, ma so che non posso perché non ho nessuna ragione per controbattere.

«E vieni qui soltanto per darci cattive notizie, dopo tutto il tempo in cui abbiamo aspettato il tuo arrivo!»
É normale, giusto che reagiscano in questo modo.
Hanno ragione.
Non devo aggredirli.
Lo fanno perché mi vogliono bene.

«Kim, sta’ calmo» dice, mettendogli una mano sulla spalla.

Mio padre capisce che é il caso di darle retta, perciò si risiede.

Io, invece di rimanere razionale come lui, comincio a sentire la sopportazione sgretolarsi.

«Non é possibile che tu ti mantenga con l'eredità del nonno e noi non abbiamo più il minimo controllo della tua vita.» Riempie di rosso il bicchiere appoggiato sulla tovaglia plasticata a quadretti, mentre parla con l'accento del nord.

The Unsaid | Wattys2017Where stories live. Discover now