Capitolo III

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Riley, 14 novembre 1996

Arrivato finalmente al mio posto, siedo sul bordo del marciapiede perdendomi ad ascoltare il battito veloce del mio cuore.

Attraversare il cortile stracolmo di ragazzi credo sia la parte più stressante delle cinque ore di scuola.
Ho sempre l'ansia che qualcuno mi possa notare.

Non sono manie di protagonismo, é semplicemente terrore che qualcuno possa prestare attenzione a me, perché non sono capace di relazionarmi. Sarebbe bello fare amicizia come tutti, ma non riesco. Appena vedo un gruppo di persone inizia ad attanagliarmi il mal di gente.

Perciò invidio coloro che di solito stanno al centro della massa, apprezzati dagli altri, un po'egocentrici.
Io vorrei, ma poi si rovina tutto: la piccola speranza di poter essere normale viene soffocata da strati e strati di insicurezza, ansia e altre cagate.
Così finisce che per far uscire parole dalla mia bocca bisogna estrarle con le pinze, e quelle poche sono sempre intrise di fastidio e cattiveria.
Se ho mai aperto bocca nella mia vita, è stato per prendere un po'di ossigeno o per rispondere con un monosillabo.

Alzo lo sguardo per guardare che stanno facendo. Giusto per rodermi ancora di più per ciò che loro sono e che io non sarò mai.

Oddio.

Sento il mio cuore fare uno sfiato improvviso, come un pfff. Solo dopo ricomincia a battere. Velocissimo.

Si sovraccarica. Ora scoppia, me lo sento.

Oddio, oddio, oddio.

Abbasso lo sguardo alla velocità della luce e torno a fissare il pavimento.

Fa che si apra una voragine sotto questo marciapiede.
Ti prego, ti supplico, fammi sparire in qualsiasi modo. Prima che mi arrivi davanti.

Ti prego, ti prego.

Si avvicina ancora. La sento. Le vibrazioni impercettibili del suolo con i suoi passi si amplificano come se fossero un terremoto, alle mie orecchie.

Oh merda, è una ragazza.

No, no, no.
Infarto fra tre, due, uno...

«Ciao, posso sedermi?»

Mi aspettavo seriamente di morire, ma non è successo niente.
Sono ancora qui e mi sto domandando chi cazzo sia questa.
Ma perché mi ha chiesto se può sedersi quando l'ha già fatto? Già dalla prima cosa che ha detto si capisce molto di lei.
É stupida.

Rispondo «ok», perché non so cos'altro dire. Mi sto ancora riprendendo dall'ictus.

«Come va oggi?» cerca di attaccare il discorso. Dovrei già fare le condoglianze alla sua buona fede.

Come vuole che vada? Mah.

«Bene» risolvo con una parola neutra.

Il mio sguardo è catturato dalle sue scarpe rosse. Sono scure, un colore intenso, mi ricorda quella pozza di sangue sul pavimento di casa quando il mio ginocchio si è pugnalato con la puntina.

Ci alziamo entrambi.
Nuvole di imbarazzo ci circondano da ogni parte e ci impediscono di guardarci, parlare, respirare.
Lei fissa i suoi occhi sulle mie palpebre abbassate. Li sento, pesano, strappano le orbite e mi costringono a ricambiare lo sguardo.

Un secondo e basta.
Meglio di quanto mi aspettassi, è passato subito. Ho letto curiosità, vuole conoscermi.

I miei occhi sono di nuovo a contatto con i suoi.
Questa è davvero l'ultima volta, sul serio.

Ho come la sensazione che da un momento all'altro la sua figura possa crollare, come se fosse fatta di quadratini di carta che tra poco precipiteranno al suolo. Però non succede nulla.

Voglio che se ne vada.
Voglio che se ne vada il prima possibile.
Mi sta intaccando.
Ti prego, fa che la campanella suoni ora.

Incredibilmente lo fa. È il suono della mia salvezza.
Per fortuna.
Dio, non ci credo.

Così come la sente, la ragazza si gira e scappa via quasi correndo. Non ho avuto il tempo di vederla in viso, di ricordare la sagoma delle labbra, i gesti, il corpo. Noto solamente il Moncler bianco neve, quasi abbagliante di quant'è intenso, nascondere le forme della sua figura.

Rimango in piedi, da solo.
Mi rassicura che non ci sia nessuno vicino a me. La solitudine aiuta a ricordarmi chi sono.

The Unsaid | Wattys2017Where stories live. Discover now