Capitolo X

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Hyris, 31 gennaio 1997

Di nuovo! Non è umanamente possibile.
Ho sbagliato a fare la riga dell'eyeliner, ora sembra che abbia la palpebra sfigurata.
Strucco per la seconda volta e rifaccio.
Ci vuole concentrazione e mano ferma.

Finalmente riesco a fare una linea simile a quella dell'occhio sinistro.
Tutta questa fatica per truccarsi quando sarei potuta rimanere a chiacchierare al telefono con Virginia fino a sera!

Suonano alla porta. Odio le persone sempre in orario.
Quindi odio Hanna, colei che in questo momento mi sta mostrando uno dei suoi migliori sorrisi finti mentre apro la portiera della Maserati di suo padre.

Arriviamo alla villa di Friedrich, un amico di Hanna con il quale stasera lei ha intenzione di intensificare i rapporti.
È così stupida che mi fa venire la nausea.

Cammino davanti alla piscina gigantesca trattenendomi dalla voglia di tuffarmici dentro, anche se è quasi febbraio.
Da piccola vivevo praticamente in acqua. In realtà anche ora, ma lo stress delle gare è tutt'altra cosa rispetto al vaschino tiepido della piscina.
Era bello sentire i miei capelli che fluttuavano nell'acqua, leggerissimi; non sembrava neanche di poterli toccare.

La taverna della villa è di dimensioni spropositate, ha anche un bar e una console per il dj.

Stare qui seduta sul divanetto nell'angolo non è piacevole, dato che ho davanti Friedrich e Hanna che sono già passati alla fase di baci appassionati dopo neanche mezz'ora.

Lo stereo mi spara la musica nelle orecchie, e sto pensando a quanto la nostra concezione di divertimento sia noiosa.
Sempre la stessa cosa. Bere, ballare per finta e farsi toccare da sconosciuti. Ciò che fino a poco fa non aspettavo altro di fare il sabato sera adesso mi fa schifo.

Anche il ragazzo che si sta avvicinando mi fa schifo.
David è talmente anonimo che se al posto suo mettessero una sagoma di cartone non cambierebbe molto.

«Ciao Hyris, come va?» il suo peso di muscoli si adagia sul divanetto.

«Insomma...» indico ciò che sta davanti a me con il bicchiere d'innocente acqua con ghiaccio che ho ordinato al banco ricevendo uno sguardo stranito.

«Dai, siamo ad una festa, cosa ti aspetti?» ammicca.

È dalla prima liceo che mi corre dietro. Non gli ho mai dato importanza e mai gliene darò, è la seconda volta che gli parlo in quattro anni. Lui è al pari di una gomma da masticare sotto la scarpa.

Mi ricorda tanto Aron, stessi capelli scuri scompigliati e stessi tratti decisi.
Ormai non ci penso più, perché quello stronzo non ha il diritto di respirare la mia stessa aria.

L'odio che provo per Aron si diffonde per estensione anche nel corpo del ragazzo che ho davanti.

«Niente.»

Mi alzo e vado verso il bar passando davanti alle lingue striscianti di Hanna e Friedrich.

Arriva sotto il mio naso un bicchiere pieno di chissà cosa. Lo prendo e lo annuso, anche se non avrei mai dovuto farlo.
Mi viene da vomitare.
Non riuscirò mai a berlo.

Fisso il liquido blu per moltissimo tempo, le luci colorate filtrano attraverso il bicchiere e si trasformano in tanti frammenti.
La gente mi passa vicino e mi tocca, ma in verità non esisto.
Essere ignorata sta incominciando ad essere bello.
Se prima la rabbia rodeva, adesso la morbidezza di un rifugio anonimo e trasparente mi culla infondendo sicurezza.
Penso a Riley.
Chissà se è invisibile come lo sono io.

Riley, 1 febbraio 1997

Il silenzio disgrega.
Sono stanco di aspettare.

Ho paura che da quando è arrivata lei la mia mente si sia dimenticata dell'attesa.
Hyris mi inganna, mi fa credere che ciò che aspetto sia lei, mentre invece é l'oblio.
E questo è un momento in cui desidero entrambi intensamente.

I riflessi del Lee si scontrano con il rumore dei motori sulla strada.
Gli ultimi turisti camminano lungo il viale panoramico, anche se la poesia di questo paesaggio è guastata dal traffico di mezzanotte passata.

Poi ci sono io, che ciondolo per il marciapiede senza meta.

Fiume e auto, fiume e auto.

Diventano una strada allagata da acque verdi, dalla quale sbocciano dei fiori bianchi. La loro bellezza contrasta sulla melma paludosa.

Dai boccioli crescono rovi rossi. Non capisco come facciano delle margherite ad ospitare le radici di corde spinate che trafiggono e lacerano.

Le spine si ribellano contro gli stessi petali che le hanno create.
Soffocano, inghiottono tutto.

Del candore rimane soltanto un velo di cenere; poi questa polvere è assorbita dai miei polmoni.

La tosse si impossessa del mio respiro, non riesco a prendere aria. Mi appoggio al parapetto di cemento, mentre qualcuno mi passa davanti, forse chiedendosi se non sia ubriaco.

La piovra che mi fa agitare lo stomaco ora sta strappando tutti gli organi dalla loro sede.

I passi decidono ciò che il presente non è capace di scrivere.

Fiume e auto, fiume e auto.

Il mio corpo sceglie la seconda.

The Unsaid | Wattys2017Where stories live. Discover now