Capitolo XXII

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Riley, 17 agosto 1997

I miei palmi premono contro gli occhi.

Non c’è più nessuno a cui appoggiarmi. Non c’è più niente di cui potermi fidare. Mi sembra come se non riuscissi a trattenere la sabbia tra le dita.

Ho voluto male alle persone che mi vogliono bene o che, almeno, me ne volevano. Bisogna mettersi d'impegno per distruggere fino all'ultimo i legami che resistono.

Il tuono che ha fatto la porta di casa non era neanche paragonabile al rumore del mio sangue: le vene sulla fronte pulsavano come dei lampi, così forte da accecarmi.
Poi il vento che viene dal mare mi ha attraversato le ossa, con il freddo ha calmato il mio impeto.
E cullandomi, ha sussurrato che avevo sprecato l'ultima possibilità per ricostruire gli argini.

Sono rimasto come prima, forse peggio. Travolto dalla corrente di un fiume in piena. Incapace di trattenere i momenti, le emozioni, le persone.

Cosa farò adesso? Ho immaginato tante volte di sentirmi perso, ma solo ora che non lo desidero capisco cosa voglia dire.

Ho abbandonato chi mi salutava alla partenza, ho ripudiato chi mi aspettava all'arrivo.

Rimanere in un punto cieco di questo villaggio accecante, la risacca del mare che disgrega la mente onda dopo onda.
Scogli, casette bianche, brezza: è quello che percepiscono tutti.
Io invece sento i raggi del sole entrarmi in testa e non uscire più, la strada di ciottoli rosi dal calore, il sudore nei palmi, la delusione perché non mi rimane altro che un corpo vuoto.

Girare per la città mi fa venire lo stesso groppo in gola di quando si ricordano degli episodi di vita con una persona che non c'é più. Provo nostalgia per il vecchio Riley, quello che giocava a campana nelle strade umide dopo la pioggia.

Il circondario di Waterville a quest'ora di mezzogiorno é deserto, ma si sente il tintinnio delle stoviglie sulla tavola del pranzo. Ricordo gli infernali pasti della domenica, quando arrivavano parenti noiosi che mi facevano i soliti complimenti che si fanno ai bambini. Mi divertivo un mondo a sfotterli e osservare le loro reazioni.

Vorrei tornare ai tempi in cui andavamo a scuola con la cartella azzurra e blu, giocavamo a calcio scatenati, sudando sotto il grembiule ed impolverandolo di terra battuta. Mi ricordo che non volevano darmi la palla perché non la passavo a nessuno, ma io li strattonavo via per il colletto e me la prendevo da solo.
Non come ora, ridotto a desiderare un'aiuto ma vergognandomene allo stesso tempo.

Cammino tra le strade di un paese immacolato, ma nella mia testa marcio di ricordi.
Arrivo alla via principale, dove sono raggruppate tutte le candide case che ai turisti piace tanto fotografare.

Siedo su una delle sedie traballanti appoggiate sui ciottoli, stringo le dita attorno al ferro battuto scrostato dal sole.
Un cerchio mi pulsa sulla fronte. Soffro silenziosamente.

All'improvviso l'ombra di un cameriere si staglia tra me e il sole. Chiede un po'titubante se voglio ordinare.
Sì, dell'acqua. Ormai non faccio altro che bere acqua e mangiare patatine comprate nei supermercati ad orario continuato, a volte con qualche caramella. Tutto il resto mi fa salire i conati di vomito.
A Cork mi andava bene. Sveglia alle quattro, una dose di pastiglie, aspettare, mangiare il sacchetto di patatine comprato il pomeriggio prima, aspettare, andare al supermercato, interferone oppure chemio in ospedale, tre pastiglie, aspettare, un po' di boxe, aspettare, dormire, sveglia alle quattro. Ma in pieno agosto, a Waterville, i negozi sono chiusi e come se non bastasse io non ho né le medicine né un posto dove dormire.
O meglio, l'ho sempre avuto, ma non mi accetteranno mai dopo ciò che ho detto loro.

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⏰ Última atualização: Aug 23, 2017 ⏰

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