Capitolo quindici.

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<Hey hai da accendere?> chiese il giovane castano alla ragazza, avevano grossomodo la stessa età, ma il portamento elegante e i vestiti perfettamente stirati facevano sembrare, la Mikasa di allora, una bambolina.
Eren era un ragazzino alto più o meno un metro e settanta, i suoi capelli al tempo erano corti, era vestito male, abbastanza trasandato, fiero e dallo sguardo impertinente, ma la ragazzina non ne ebbe paura.
<Io non fumo> rispose lei, quasi sdegnosa, in realtà moriva dalla voglia di provare, <Una ragazzina di buona famiglia cosa ci fa qui?> chiese il castano squadrandola, distogliendo dopo un po' lo sguardo e continuando a guardare davanti a sé.
<Niente, sono scappata e non so dove andare> Eren alzò un sopracciglio, ma non la guardò ulteriormente, bastava uno sguardo per capire le persone come lei.
<Questo non è posto per bamboline come te, faresti meglio a tornare a casa, al posto mio ci potrebbe essere qualcuno di ben più pericoloso> disse per poi riprendere a frugare tra le tasche della sua felpa, buttando a terra qualche scontrino e qualche fazzoletto rinvenuto casualmente.
<Decido io cosa è meglio per me> disse con tono duro, Eren alzò le spalle, incurante del tono usato, aveva conosciuto di peggio.
<Stai calma, il mio era solo un consiglio> riprese a cercare nelle tasche dei pantaloni e trovò il tanto agognato accendino, <Ah! Finalmente ti ho trovato!> disse con tono allego, cosa quasi del tutto incomprensibile per Mikasa, a casa sua non rideva mai nessuno.
Eren, dopo svariati tentativi andati a vuoto, riuscì ad accendere la sua amata sigaretta.
Poi ne prese un'altra dal pacchetto e accese anche quella, la porse alla ragazza, <Tieni, continuando a guardare la mia finirai per consumarla ancora prima del dovuto> la corvina la guardò con desiderio, poi guardò Eren <No, io non fumo> rispose, questa volta non c'era sdegno nella sua voce, <Non fumi, ma vorresti provare, giusto? Allora fallo> rimarcò le sue parole avvicinandole ulteriormente la sigaretta, lei cedette.
Iniziò a tossire violentemente dopo il primo tiro, non era abituata e quella sigaretta era troppo forte <Questa schifezza è troppo forte> disse con gli occhi resi lucidi dal fumo, <È troppo forte per te, a me vanno più che bene> rispose il castano con una scrollata di spalle, era seduto in bilico sullo schienale della panchina, con i piedi poggiati sulla seduta.
<Però non è male...> disse la giovane al terzo tiro, <Il proibito piace a tutti, a chi non piace è perché non lo ha mai assaggiato> disse senza guardarla, guardava davanti a sé, non guardava le aiuole mal tenute della periferia, guardava avanti, sperando di vedere qualcosa di diverso, qualcosa di bello, qualcosa di unico.
La ragazza si sedette vicino a lui, in modo composto, ma tentando comunque di imitare la sua naturalezza, poteva sembrare spensierato, ma ad un occhio attento come il suo quella supposizione si rivelava falsa.
<Come facevi a sapere che volessi provare? A fumare, intendo> specificò la corvina, <Lo avevo intuito, le ragazzine di buona famiglia rette e corrette non frequentano di certo questa zona, come ho già detto il proibito piace a tutti, anche alle finte santarelline come te> disse facendo poi cadere la cenere dalla sua sigaretta, <Finte santarelline?> probabilmente la ragazza si sarebbe dovuta offendere alle parole del giovane, ma in cuor suo sapeva quanto avesse ragione. <Non esistono le "brave ragazze", è un'idea stereotipata vecchia scuola. Fa tanto "donna angelo", ma cazzo siete umane anche voi, anche voi peccate> disse guardandola, fasciata nel suo vestito rosa che non rendeva giustizia alla sua bellezza.
<Come mai sei scappata?> chiese il castano,
neanche lei sapeva la risposta a quella domanda, era stato tutto abbastanza improvviso, era alla festa data in onore dei suoi quindici anni, ma mai si era sentita tanto sola, quindi era scappata via, sotto lo sguardo attonito degli invitati.
<Mi sentivo sola a casa mia, stavano festeggiando il mio compleanno ma... a nessuno importava davvero. Erano tutti lì, ma in realtà ero così sola. A nessuno importa di me in quella casa> sentenziò abbassando lo sguardo, <Beh vedi il lato positivo, hai una casa> disse Eren piegando le labbra in un piccolo sorriso, era come se stesse dicendo "poteva andarti peggio", <Non la hanno tutti?> chiese sbigottita Mikasa, dall'alto della sua torre ovattata fatta di benessere e tranquillità.
<Io non la ho, vivo in orfanotrofio> rispose il castano, e la corvina si sentì sprofondare, era stata superficiale. <Pensa, il mio compleanno non se lo ricorda nessuno, almeno i tuoi si prendono la briga di farti una festa, per quanto fasulla essa sia. Devo ammetterlo, ho sempre invidiato quelli come te, avete tutto ma sembra sempre che non abbiate niente, vi si spegne lo sguardo per una sciocchezza e pensate che vi sia tutto dovuto. L'orribile vestito che indossi vale molto di più di quanto io possa immaginare, è solo un vestito ma io non lo potrò mai avere> disse con una certa tristezza nella voce, i suoi vestiti visti da vicino erano molto più lisi di quanto dassero a vedere, anche i suoi occhi visti da vicino sembravano più tristi, il suo visto portava i segni di un passato ben più infelice del suo, e le sue mani erano tempestate di piccoli tagli in via di guarigione, agli occhi della ragazza sembravano molto dolorosi, ma il ragazzo sorrideva, sorrideva più di quanto lei avesse mai fatto, pur non avendone motivo, pur non avendo nulla.
<Però un po' ti capisco, potrai pur essere rinchiusa in una bellissima gabbia dorata, ma rimarrà sempre una gabbia> la guardò meglio, <La mia gabbia è solo un po' più logora e meno brillante, siamo entrambi senza amore> disse con fare pensoso, poi saltò giù dalla panchina, atterrando sulle scarpe consunte. <Io adesso devo tornare in orfanotrofio, non mangio da quando sono scappato, due giorni fa, e sto morendo di fame. Però ti prometto che quando scapperai nuovamente io sarò qui ad aspettarti> disse gioioso, la ragazza scese a sua volta, se pur in modo meno agile, la corvina annuì con poca convinzione <Perché scappi sempre? Non sarebbe più comodo rimanere in orfanotrofio?> chiese, per lei non aveva il benché minimo senso scappare di continuo per poi fare sempre ritorno in gabbia.
<Perché so che c'è qualcosa per cui valga la pena fuggire, devo trovare quello che mi manca per essere felice> rispose con naturalezza Eren, <Anche io voglio essere felice...> mormorò la giovane, <Scapperò anche io allora, tutte le volte che mi sarà possibile, tu aspettami> Eren annuì.
Si salutarono con un gesto della mano, sicuri che si sarebbero rivisti, e così fu.
Per mesi continuarono a vedersi, scappando dai loro carcerieri, alla ricerca di quello che mancava nelle loro vite, alla ricerca di quello che non avevano e che evidentemente neanche Mikasa poteva comprare: l'amore.
Eren era un ragazzo davvero bizzarro agli occhi della corvina, lei era abituata alla freddezza di casa sua, al suo rigido fratellastro, Levi, alla matrigna Kuchel che sembrava una povera vittima e al patrigno, un uomo freddo e privo bontà d'animo.
Per anni il suo termine di paragone era stato Levi, ben più grande di lei, lui anche quando non era in casa c'era lo stesso, affollando i discorsi della madre, e riempendo d'orgoglio il cuore burbero del padre, lui era perfetto.
Era perfetto perché all'università prendeva sempre il massimo ad ogni esame, perché era brillante, perché era talmente tanto educato da sembrare un pezzo di ghiaccio, e perché il violino quando lo suonava lui sembrava cantare un inno a Dio. Lei non era perfetta.
Non era perfetta perché non andava bene in francese, perché non sapeva stupire gli altri con le sue parole, perché a volte rispondeva male a chi la infastidiva, e perché il violino quando lo suonava lei piangeva in tutte le lingue del mondo. Levi era perfetto, Mikasa no.
Ma infondo quella era la vita di Levi, quella era la famiglia di Levi, non quella di Mikasa.
Per questo anche quando non era presente fisicamente, in qualche modo la sua presenza influenzava la vita della bambina che poi divenne una donna.
Ma Mikasa non provava né invidia né rancore nei confronti di Levi. Non ne aveva motivo.
Levi poteva essere il migliore in tutto, ma il suo sguardo era comunque spento, come se essere il migliore in tutto non fosse che un valore aggiunto al profondo vuoto che aveva nel petto, Levi era l'orgoglio del padre, era la flebile luce che animava gli occhi spenti della madre, ma Levi non era mai stato amato.
Lei lo vedeva, lo capiva, era evidente.
Quante urla aveva dovuto sorbire Kuchel prima di smettere di manifestare affetto verso suo figlio? Troppe per essere contate da una bambina che a stento arrivava a contare i quadri presenti in casa sua: precisamente trentaquattro.
Secondo il suo patrigno Levi non doveva essere accarezzato dalla madre, non doveva essere
rincuorato quando sbagliava, non doveva essere abbracciato quando partiva per tornare l'università. Quelle attenzioni lo avrebbero distolto dalle cose importanti: la sua carriera da musicista.
Quando aveva imparato a contare fino a cento Kuchel aveva già smesso di accarezzare con le mani stanche il volto del figlio, e il suo patrigno non urlava più per farla smettere.
Kuchel però piangeva, erano innumerevoli le volte in cui lo faceva, non smise mai di piangere. Da piccola pensava che fossero tutte quelle lacrime a renderla stanca, apatica, spenta. Poi si rese conto che Kuchel aveva smesso di piangere, ne fu felice, ma sbagliò nell'esserlo.
Kuchel morì pochi giorni dopo aver versato le sue ultime lacrime. Ricordava la profonda tristezza che gli occhi di Levi non riuscirono a celare, fu allora che ebbe pietà di lui.
Ebbe pietà di lui, perché pur essendo perfetto, non aveva nulla. Levi Ackerman non aveva nulla di vero a cui appigliarsi mentre cadeva giù
giù
giù
nel più nero degli abissi: in angosciante e freddo silenzio.
Mikasa non poteva fare altro che assistere muta e inerme alle scene che si rincorrevano nel maniero del suo patrigno.
Lui non lo aveva mai visto piangere. Mai.
Levi aveva pianto una o due volte, lui mai.
Era sempre così distante nel suo completo nero gessato, con i capelli neri che si arrendevano al tempo, tingendosi di bianco. Ma i suoi occhi rimanevano sempre gli stessi, così neri da sembrare finti, sembrava un'ombra in casa.
E lei crebbe così, circondata dalle domestiche e dai vestiti a campana, dal silenzio e dall'orgoglio del suo patrigno verso un figlio che non tornava più a casa, se non per le feste, ma soprattutto a farle compagnia ci pensava la foto scolorita dei suoi genitori, morti quando lei era troppo piccola per ricordarseli, e Eren. Lui era il sole. Lui era il calore che mancava nella sua vita, ma sapeva che lo stesso non valeva per lui, lui cercava sempre di più, non si accontentava mai, lui voleva la perfezione.
Eren sbagliò tante volte nel corso di quegli anni, cadde innumerevoli volte, ma si alzò sempre una volta in più.
Pianse tanto, ma sorrise il doppio, anche quando la disperazione sembrava soffocarlo.
Anche quando le percosse deturpavano il suo corpo, anche quando qualcuno allungava le mani più del dovuto, facendogli provare cose che un ragazzino non avrebbe mai dovuto provare. Mikasa non riusciva a fare nulla, se non consolarlo, facendolo piangere sulla sua spalla, Eren piangeva anche le sue di lacrime. Lei non piangeva mai, come il patrigno, ma per  ragioni differenti: qualcuno doveva pur essere forte in quell'inferno.
Eren era forte, ma aveva troppe ferite sul cuore, troppi lividi sulla pelle e troppi tagli gli squarciavano l'anima. Eren era a pezzi, lo era sempre stato.
Lei era tutta intera, più o meno, e doveva sostenerlo. Sostenerlo perché lui altrimenti non sarebbe riuscito ad andare avanti, perché si sarebbe perso nelle spire del dolore e nell'odio verso qualcosa o qualcuno, nella rabbia e nel rancore. Aveva tutte le motivazioni per perdersi, ma lei non poteva permetterglielo. Eren era come Levi.
Perfetti a tal punto da stare male, abbastanza forti da crollare, feriti dall'amore negato, e soli. Soli come chi non riesce più a vedere la luce nel futuro. Soli come chi non ha più la forza di sperare in qualcosa di buono.
Perfetti e in pezzi, ecco cos'erano ai suoi occhi Eren e Levi. E li amava, a modo suo, senza farsi scoprire.
Li guardava da dietro, mentre loro facevano le loro scelte, mentre sbagliavano, mentre ringhiavano contro le avversità e mentre la lasciavano indietro. Mikasa però amava guardarli, perché qualcuno doveva pur farlo.
Qualcuno doveva pur tentare di tenere insieme i cocci rotti di una vita troppo complicata.
Di una vita triste e solitaria, di una vita tanto imperfetta da rompersi in mille pezzi non appena sfiorata in modo troppo brusco.
Mikasa poi li aveva visti, insieme, mentre si baciavano fingendo un amore che ai tempi non c'era, solo per farsi beffe dei fotografi e delle riviste rosa. Lei però sapeva che quello non poteva che essere l'inizio di qualcosa di più grande, di qualcosa di bello. Lei aveva capito che Eren, senza saperlo, aveva trovato quello che cercava da sempre. Si era finta arrabbiata, ma era tutta scena, mai foto l'aveva resa tanto felice. Sentiva che finalmente sarebbero stati felici, senza di lei. Mentre si allontanava dal gala capì che il suo lavoro era finito, e che in un modo o nell'altro i suoi due fratelli sarebbero stati felici.

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