Capitolo sedici.

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Le luci della grande metropoli si stagliavano davanti agli occhi verdi del rockettaro, la cui vita era fasciata da un misero asciugamano di cotone bianco candido, i capelli ancora bagnati lasciavano ricadere perle d'acqua lungo la schiena del giovane uomo.
Guardava dalla finestra le luci e i colori della enorme città dove si sarebbe tenuto il loro ultimo concerto del tour, proprio quella sera, poi sarebbe tornato a casa.
Erano passati ben tre giorni dal suo incontro con il violinista, e l'ansia non aveva smesso un secondo di logorargli il petto. Moriva al sol pensiero di ricevere un "no" dall'uomo che amava.
Il loro albergo quella volta era un grattacielo, interamente fatto di vetro, e ad ogni sguardo la vista si perdeva su quel continuo accendersi di colori e l'inseguirsi frenetico dei rumori, se pur ovattati, lo faceva fremere, era ancora notte ma di lì a poco sarebbe sotto il sole, e con sé avrebbe portato anche l'inesorabile scadere del tempo. L'ultimo giorno, l'ultimo concerto, l'ultimo viaggio prima di scoprire la verità.
Aveva scelto lui quell'albergo mesi addietro, litigando con il manager per la spesa eccessiva, ma lui voleva il meglio. Loro volevano il meglio. La verità è che lo aveva scelto pensando a Levi, pensando che avrebbe potuto invitarlo a stare con lui per l'ultima tappa del tour, e magari consumarsi insieme le labbra in quella camera. Ma quello era successo tanto tempo prima, quando ancora non era cosciente dei suoi sentimenti verso il corvino, quando era ancora il padrone del suo cuore e quando era ancora in tempo per tornare ad essere sé stesso. Immaginò di poter essere con lui lì, in quella enorme stanza che non faceva altro che farlo sentire più solo, era così grande e dispersiva, così in alto e così lontana dal resto del mondo. Immaginò di poter stare ancora con lui, mentre guardavano fuori il panorama, mentre il sole nasceva e con lui nasceva un nuovo giorno. Un giorno che per quanto potesse immaginare avrebbe trascorso senza il suo violinista.
Dopo il loro incontro aveva sentito l'angoscia crescere in modo spropositato in lui, sentiva che quella era stata la sua ultima carta, poi ci sarebbe stato l'epilogo.
In quei giorni aveva pensato a quanto sarebbe stato bello avere una famiglia, una famiglia vera, una famiglia felice. All'inizio non riusciva neanche a immaginarla una famiglia per sé, come non riusciva ad immaginarsi da piccolo circondato dall'amore dei suoi genitori, ma piano piano nella sua mente si era affacciata l'immagine di sé stesso con un fagottino in mano, con magari Levi al suo fianco. Quando ci pensava l'angoscia che stritolava il suo cuore sembrava sparire, facendo posto ad un tiepido calore che gli riscaldava il petto.
Il sole era sorto da pochi istanti quando sentì il suo telefono suonare, abbandonato miseramente sul comodino. Non lo controllava dal giorno i cui aveva visto Levi, voleva staccare la spina delle cose non importanti, ed il mondo era una di queste. Si avvicinò in fretta, la parte meno razionale del suo essere sperò che fosse Levi, ma sullo schermo comparve il nome del suo fratellastro: Zeke.
Eren pesò agli eventuali motivi che avrebbero potuto spingere il fratello a chiamarlo, non ne trovò nessuno che potesse anche essere minimamente definito positivo.
<Pronto?> disse annoiato, mentre il calore che gli era nato nel petto diveniva un ricordo vago, e le spire dell'angoscia avevano ripreso a stingere il suo fragile e malconcio cuore.
<Ciao Eren, disturbo?> pensò ai motivi che avrebbero potuto spingerlo ad essere cortese, ancora una volta non trovò nulla.
<Si, in America è appena sorto il sole> evidentemente il fratello non aveva fatto i conti con il fuso orario, <Qui è notte ma ti dovevo assolutamente dire questa cosa> disse con tono concitato, <Allora dilla, che aspetti?> non voleva di certo perdere tempo con lui, <Non appena sarai tornato dal tour vieni a casa di nostro padre, è molto importante> Eren affilò lo sguardo come se Zeke gli fosse stato di fronte, mentre sentiva la rabbia montargli nel petto, quando si trattava del padre bastava poco per fargli perdere le staffe.
<Non verrò, io in quella casa non ci metto piede> stava per attaccare quando sentì la voce di Zeke dall'altra parte del telefono, <È importante, lui ti deve parlare! Riguarda tua madre!> sentite quelle parole Eren chiuse la chiamata, senza neanche salutare.
Aveva buoni motivi per essere ansioso.

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