18- Are we dead enough?

230 41 5
                                    

Ben mi è sempre stato sul cazzo.
So che è mio fratello, e come tale ci si spetta che almeno un minimo di sopportazione io debba averla nei suoi confronti, ma ieri sera, quando mi ha beccato con la lingua infilata nella gola di Michael, ho recepito una volta per tutte la questione che sì, mio fratello è proprio un coglione.
Non mi ha dato neanche il tempo di spiegargli cosa stesse succedendo; mi ha tirato via e chiuso in casa prima che io potessi sbattere le palpebre.
E adesso i miei genitori ce l'hanno con me, e non mi faranno più uscire di casa se hanno la certezza che lì fuori, nascosto tra i cespugli e le crepe dell'asfalto, c'è Michael Clifford. A un certo punto mi viene da chiedermi cosa lui abbia fatto di male per guadagnarsi tutto questo odio da parte della mia famiglia. Se solo potessero viverlo come lo stavo vivendo io fino all'altra sera, allora se ne innamorerebbero. Dio, se se ne innamorerebbero.

Ma adesso Michael ha un labbro spaccato e forse il setto nasale deviato, e mi sento in colpa per non essere riuscito a fermare mio fratello in tempo. Santo Cielo, sono un emerito cazzone. Mentre Ben prendeva a pugni Michael avrei voluto tirarlo via dal suo corpo e urlargli in faccia che solo io avrei potuto farlo, solo io avrei potuto spaccargli il naso, perché solo io a questo mondo so come farlo senza fargli davvero del male.
Ma adesso non vedo Michael da ventisette ore e Ben, di male, ne ha fatto abbastanza. A tutti e due. E lo odio ancora di più per questo. E da un paio di giorni sono ricominciati gli incubi. Perché ho smesso di prendere le medicine, così dice Internet. Ma la parola medicina in latino significa veleno e allora sono un po' combattuto all'idea di continuare a prenderle come una volta. Uno studio scientifico dimostra che più si fa uso di un farmaco, più l'effetto di quello sul proprio corpo è destinato ad affievolirsi. Volevo solo scriverlo. Mendes dice che devo buttare giù qualsiasi pensiero, a patto che mi liberi dal superfluo. Non so se questo è superfluo. Credo che niente lo sia.

Fatto sta che l'incubo è sempre lo stesso da un paio di giorni a questa parte.
Io che corro a perdifiato lungo una strada desolata, completamente deserta e buia, con l'asfalto fatto a pezzi mentre tengo nella tasca destra del giubbotto di pelle la lettera di Michael. Quella sporca di sangue che mi ha lanciato addosso quando io mi stavo preparando al resto della mia vita, in un lento stadio di meditazione inconscia steso sul pavimento della mia stanza. Circondato dal buio, continuo a correre fino a raggiungere un'ampio spiazzo di cemento, simile alla pista che stava dietro casa quando abitavo ancora a Melbourne. Ci andavo spesso con zio Richard, a provare sullo skate quando non c'erano le gare di moto.
Davanti a me c'è un auto, è accesa, ha una portiera un po' ammaccata, la vernice scrostata e avrebbe bisogno di una ruota nuova. È simile a quella su cui ho visto salire Michael ubriaco, aiutato dal suo amico Calum Qualcosa, credo. C'è qualcuno ad aspettarmi lì dentro. Con gli occhi non vedo nessuno all'interno dell'abitacolo, ma percepisco una presenza al volante. Che mi intima di salire a bordo.
Allora smetto di osservare la luce dei lampioni che illumina la pista e mi giro intorno, e vedo delle figure sugli spalti che mi osservano con circospezione. I miei genitori; mia madre con indosso un vestito da sposa sporco e consunto, e mio padre con la sua ventiquattr'ore in mano. Incrocio i loro sguardi, ma rimaniamo impassibili. Non un cenno, nè un saluto. Allora allungo lo sguardo fino alla figura successiva, poco più lontano. Mendes sta leggendo le cose che ho scritto su questo taccuino, e intanto stringe un crocifisso e scuote la testa. Ben se ne sta con le braccia incrociate al petto e mi osserva con la mascella serrata. Accanto a lui, Abby scuote il capo e bisbiglia qualcosa. Non riesco a capire cosa, perché il rombo della macchina davanti a me si fa più forte. Come ad avvisare di darmi una mossa, non perdere tempo, sali.
Ma io cerco un'ultimo sguardo. Vago con gli occhi dall'altra parte dello spiazzo, sicuro di trovarlo nello schieramento opposto. Michael Clifford, con lo zigomo viola e il labbro spaccato, mi sorride facendo brillare i suoi occhi cerulei. In mezzo a tutta quella disapprovazione nei miei confronti, lui sorride. Mi dice: "Sai qual'è il colmo per una persona come te, Luke?"
Ma non ho nemmeno il tempo di dirgli no, non lo so, che all'improvviso mi ritrovo dentro una macchina che va a fuoco, e le portiere sono bloccate e continuo a urlare "dimmelo, Michael!" finchè il fumo mi riempie i polmoni e mi soffoca.
Allora mi sveglio. Sempre ad un passo dalla mia morte. Prendo una boccata d'aria e sono costretto a respirare velocemente, con prepotenza, e non più lentamente come mi ero abituato a fare. A quel punto mi volto e accanto a me, sotto le coperte, c'è il cadavere di Michael. Gli occhi vitrei e spenti, le labbra viola, la pelle talmente bianca da sembrare trasparente. Privo di vita, senza quella scintilla luminosa che lo caratterizzava, se ne sta steso al mio fianco e mi fissa. Poi si tira sedere, allunga una mano verso il mio volto. Non sbatte le palpebre. Le sue unghie sono viola e la pelle fredda come il marmo. Mi chiede perché gli è toccato morire per primo. Mi chiede perché non ho risposto quando ha fischiato per farsi riconoscere. Poi avvicina il volto al mio, io inizio a piangere e a chiedergli scusa, e con lo stesso sguardo accondiscende e le palpebre spalancate, mi bacia mentre con entrambe le mani va a stringere il mio collo. 

E poi mi sveglio davvero. E non c'è nessuno con me, sono sempre solo nella mia stanza. E mi obbligo a respirare piano, anche se sono sempre spaventato a morte e mi tremano le mani. E non c'è nè il cadavere di Michael, nè Michael.
E cazzo se odio Ben.

 𝐌𝐈𝐃𝐃𝐋𝐄 𝐅𝐈𝐍𝐆𝐄𝐑Où les histoires vivent. Découvrez maintenant