Capitolo 1: La fuga

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Non vi so dire per la precisione in quale epoca si svolse questa storia.
Sappiate soltanto che il tutto mi capitò alla tenera età di sei anni.
Ho sempre vissuto all'interno di un orfanotrofio, un luogo che già da piccolina consideravo come una sorta di prigione infernale, governata da un gruppo di suore che vedevo come i diavoli che giravano all'interno di quell'inferno senza fine.
E se dico ciò un motivo c'era: erano letteralmente bastarde! Non ci permettevano di fare nulla di divertente, ci limitavano in tutto e per tutto ed erano fissate con le buone maniere, specialmente con un enorme libro di regole che noi tutti dovevamo seguire alla perfezione (solo più avanti scoprii che si trattava del galateo).
Se non ci si comportava in modo adeguato, per punizione si veniva mandati in "isolamento", così dicevano loro.
E se pensate anche soltanto un minimo che si tratti di una punizione frivola o non efficace, beh, vi sbagliate di grosso: essere mandati in isolamento in quell'orfanotrofio significava essere rinchiusi per non so quanto tempo in una piccola e stretta stanza grigia, munita di letto, lavandino e un piccolo gabinetto.
Soltanto una piccola finestra che dava sull'esterno poteva dare un minimo di intrattenimento, a volte facendo rosicare chi stava dentro poiché si vedevano gli altri bambini giocare in cortile; mentre il mal capitato di turno era lì dentro a scontare una qualche sua pena.
In isolamento nessuno ti teneva compagnia e non c'erano giocattoli con cui giocare.
Quindi, se questa punizione potrebbe già essere dura da sopportare anche per una persona adulta, non potete capire quanto possa essere pesante a livello psicologico per un infante.
Ed io, finivo spesso lì dentro. Potevo oramai considerarla come una seconda camera da quante volte mi ci mandavano.
Ci pativo e ci stavo male perché pensavo che quelle suore se la prendessero con me senza un valido motivo. Io mi divertivo e non davo fastidio a nessuno. Perché se la dovevano prendere con me?
Più avanti negli anni compresi che ero io stessa una ribelle che non voleva essere legata ad una qualche catena: avevo un modo tutto mio di comportarmi e spesso facevo dei giochi talmente tanto spericolati da rischiare ogni volta di farmi male o addirittura di ammazzarmi. Come per esempio arrampicarmi sugli alberi del cortile, cercando di raggiungere ogni volta un ramo sempre più alto.
Che male c'era, dicevo io.
Non davo fastidio a nessuno, eppure venivo punita.
Oltre a questo piccolo fattore, non mi piaceva giocare con gli altri bambini. Sono sempre stata una bimba molto solitaria. Le suore si preoccupavano (inutilmente, pensavo io) di questa mia particolarità. Così cercavano sempre di integrarmi in un qualche gruppo di bambini che come me erano in attesa di essere adottati da una qualche famiglia sconosciuta.
Ed è anche per questo che le odiavo: mi sentivo a disagio in mezzo alla massa e questo loro lo sapevano. Perché mi dovevano costringere a interagire con persone con cui non volevo averci nulla a che fare?
Dopo avervi ampiamente informato riguardo a ciò che succedeva in questo "bellissimo" posto, voi vi stareste sicuramente chiedendo: ma i tuoi genitori? Per quale motivo ti hanno abbandonata in un orfanotrofio che viene gestito con tali regole esageratamente ferree? Sinceramente non lo so e non mi ha mai interessato approfondire l'argomento.
L'unica cosa che all'epoca agoniavo più di tutte era la mia stessa libertà.
Oramai stufa di essere trattata in quel modo e di quel luogo orribile in generale, decisi di scappare definitivamente durante una di quelle sere.
Non sapevo come me la sarei poi cavata. Anzi, a dirla tutta, avevo visto poco e niente del mondo esterno. Un qualche modo per sopravvivere l'avrei però trovato: del resto, ero assai furbetta già da bambina.
Fortunatamente, il mio dormitorio era situato al piano terra e questo mi permise di saltare dalla finestra e di finire nel cortile esterno.
Non potendo scavalcare il muro o il cancello poiché erano troppo alti rispetto a me, decisi di farmi ancor più minuta di quanto non lo fossi già all'epoca e di passare attraverso una siepe curata dal giardiniere che lavorava (o lavora, questo non ve lo so dire) in quel posto.
Non vi nascondo che il tutto fu parecchio difficoltoso: feci molta fatica ad entrarci e feci ancor più fatica ad uscire dall'altra parte. Non solo perché i rami della siepe erano molto fitti, ma anche perché questi mi graffiavano e mi facevano parecchio male ad ogni mio singolo movimento.
Non mi arresi e alla fine, riuscì a ritrovarmi dall'altra parte. Ero ridotta uno schifo: il mio pigiama si era totalmente sgualcito, ero piena di graffi sanguinanti che continuavano a pulsare e a bruciare in continuazione e per di più avevo un sacco di rametti e foglioline incastrate tra i capelli.
Ma perlomeno ero finalmente fuori.
Con un'adrenalina e con un batticuore che non avevo mai provato in vita mia sino ad allora, iniziai a correre il più velocemente possibile verso una meta a me ignota.
Tra lunghi marciapiedi, strade che prontamente attraversavo senza una minima attenzione, macchine che per poco non mi investivano e gente che mi tirava insulti che le mie orecchie all'epoca non avevano ancora avuto l'onore di ascoltare, arrivai non so come in centro città. La strada che percorsi non era così tanto affollata ed è proprio per questo che inizialmente presupposi di essere entrata in città verso tarda serata.
Avevo i polmoni che bruciavano e che cercavano fiato, le gambe che mi facevano male e il cuore che continuava a battermi all'impazzata. Mi sentivo svenire, ma nonostante ciò dovevo continuare a correre. Ero ancora troppo vicina all'orfanotrofio e dovevo cercare assolutamente un posto più appartato. In città mi avrebbero subito scoperta e riportata lì dentro.
Senza fare attenzione a ciò che avevo davanti , corsi il più velocemente possibile lungo quel marciapiede in cui mi ritrovavo.
Fino a quando non sbattei contro qualcosa, o per meglio dire, qualcuno.
L'impatto fu talmente grande che finì prontamente con la schiena a terra.
Dolorante per la botta presa e per i graffi che avevano ricominciato a bruciarmi come non mai (non che il sudore non avesse contribuito a quella fastidiosa sensazione), alzai lo sguardo, il quale oramai si era fatto appannato. Poco dopo, la vista mi ritornò limpida.
Colui che avevo scontrato fu un ragazzo particolarmente alto in confronto a me, ma allo stesso tempo robusto.
Aveva una faccia molto pacioccosa, capelli corti castani e portava al viso degli occhiali da intellettuale.
La forza dell'impatto fece indietreggiare anche lui e gli ci volle qualche attimo e qualche imprecazione per capire appieno cosa fosse appena successo.
A quel punto, considerai tutta la mia fuga un completo fallimento.

My Strange LifeWhere stories live. Discover now