14: Natiell, panico e rimorsi

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Kou si girò di scatto, sorpreso lo avesse chiesto a lui. Si sentì arrossire implacabilmente.
<Oggi continuiamo a fare foto sulla scena del crimine ed identifichiamo la prima vittima.> si infilò la felpa e deglutì notando il modo in cui Joyce lo guardava. Incassò la testa tra le spalle, un segreto non detto aleggiava fra di loro ed in quel momento li divideva come un muro di vetro. Sospirò. <Lo so.>
Joyce distolse lo sguardo facendo un respiro profondo, si mise seduto e le sue vertebre scricchiolarono. <Sai, Kou, penso che il momento della carrozzina sarà un po' anticipato.>
Kou annuì senza guardarlo. <Sì, l'ho decisamente notato.>
Il biondo abbassò di colpo lo sguardo inforcando le stampelle e dirigendosi verso camera propria a cambiarsi. L'altro fissò la sua schiena allontanarsi e poco dopo si sdraiò sul punto ancora caldo tra le coperte. <Mi dispiace.>
Sperava che Joyce lo stesse ascoltando da appena fuori in corridoio, ma non rispose nessuno. Si alzò in piedi ed aprì lentamente la porta.
Il passaggio era deserto, e la porta bianca era chiusa.

Deglutì appoggiando la mano alla maniglia. <Ti aspetto in macchina, va bene?>
Nessuna risposta.
Abbassò la maniglia, ma la porta non si aprì. Fece un po' di forza. Quella rimase immobile.
Sospirò. <Ti sei chiuso dentro? Va bene. Non ti obbligherò ad uscire dalla tua comfort zone. Quando...quando avrai bisogno di me, mi chiamerai?>
Deglutì di nuovo quando non gli rispose nessuno.
<Joyce?> chiamò piano. <Stai bene?>
La sua mano scivolò lentamente ma inesorabilmente dalla maniglia.
<Ti...ti aspetto sulla scena del crimine, okay? Sarò lì quando...> fissò la porta sentendosi all'improvviso un estraneo. <Quando vorrai...>

La macchina di Joyce era così vuota senza Joyce. Così strano guidare verso una scena del crimine da solo. Senza i commenti taglienti, i brontolii, i ringhi, gli ordini, ma anche i piccoli sorrisi. Kou sospirò fissando la neve che scendeva. Sarebbe stata una lunga mattinata, e solo perché aveva deciso di rispondergli male. Doveva averlo ferito parecchio se se n'era andato in quel modo.
Strinse il volante. Ma perché diavolo si preoccupava tanto? Joyce era un uomo adulto, decideva lui quando andare e venire, non doveva importargli. Aveva trenta dannatissimi anni.
Allora perché era tanto in ansia?

Prese il telefono dalla tasca, accese lo schermo. Loro due gli sorrisero dallo sfondo. Inspirò bruscamente digitando il numero. Rimase in silenzio mentre lo sentiva squillare a vuoto, e lo invase un gelido terrore quando la voce registrata annunciò che non era raggiungibile. Joyce non avrebbe mai spento il telefono per una rispostaccia, l'aveva visto lui stesso come si preoccupava se perdeva una chiamata.

Tuttavia, lui aveva comunque un orgoglio. Aveva ventotto anni, non diciassette. Era fuori discussione che tornasse a...
<Fanculo.> imprecò facendo inversione. <Se lo trovo lo prendo a calci.>

La porta era ancora chiusa. A chiave. Kou inspirò irritato andando a cercare Arkar, perché era colui a cui era più semplice rubare le chiavi.
Si diresse a scuola e bussò. <C'è per caso Arkar Myat? Devo chiedergli un'informazione.> l'uomo dietro la cattedra scosse la testa. <Dovrebbe essere in biblioteca con il ragazzino DSA. Prova a controllare lì.>
Kou sorrise, un sorriso ampio quanto falso. <Grazie mille. Buon continuo lezione.> chiuse la porta e marciò nervosamente verso la stanza, la porta coperta di ridicoli cartelloni. Bussò. <Arkar Myat?>
<Kou?> chiese sgranando gli occhi quest'ultimo, tenendo il quaderno del ragazzino che stava aiutando a leggere. In quel momento il bambino sorrise. <Io ti conosco.>
Kou annuì sorridendogli. <Devo parlare un momento con il tuo insegnante, posso rubartelo?>
Il bambino annuì tornando a scarabocchiare su un foglio.
Arkar seguì confuso Kou, che si chiuse la porta alle spalle.
<Non dovresti essere con Joy?> gli bisbigliò.
<Sì, dovrei, ma la vostra porta è chiusa chiave.> sussurrò di rimando il più alto.
L'altro impallidì leggermente. <Cristo.> si frugò nelle tasche e gli appoggiò nel palmo un piccolo oggetto metallico, duro e freddo. <Ricordati di...> Kou era già corso all'ascensore. <...ridarmela...>
<Myat!> lo chiamò il ragazzino da dentro l'aula, <Ti ho disegnato!>
Arkar annuì rigido raggiungendolo e gli sorrise scompigliandogli i capelli.
Si impose di non farsi prendere dall'ansia: se c'era qualcuno che poteva aiutare Joyce, quello era proprio Kou.


La camera era in penombra, solo la lampada sulla scrivania gettava un discreto bagliore sui fogli sparsi. Kou si guardò intorno. Niente Joyce. Il sollievo che aveva provato recuperando la chiave si trasformò nuovamente in gelo. Si avvicinò alla scrivania. Quando notò le stampe delle telecamere raggelò. Era vicino alla risposta.
Si girò di scatto ad un leggerissimo singhiozzo.
Dato che in camera non c'era nessuno, si diresse in bagno. Rimase sulla porta a fissare la figurina avvolta nel felpone nero che si abbracciava le gambe in un angolo della vasca.
<Joy> chiamò piano senza ottenere risposta. Si avvicinò lentamente e gli si accovacciò davanti tirandogli leggermente su il cappuccio. Joyce alzò lo sguardo su di lui e Kou sorrise appena, rivedendo in quegli occhi la persona che non lo avrebbe mai tradito. <Sei pallido come la Morte.>
L'altro non rispose e nascose il viso contro le ginocchia. Kou sospirò togliendosi le scarpe ed entrando nella vasca asciutta con lui. Lo attirò al proprio petto ed il biondo non si allontanò.
<Posso sapere come mai sei qui nascosto?> gli accarezzò delicatamente i capelli.
Joyce tenne lo sguardo rigorosamente basso. Kou gli alzò leggermente il viso tirandogli delicatamente i capelli. <Da quanto non fai un pasto completo?> Joyce fece per riabbassare lo sguardo, ma Kou glielo impedì. <Per favore.>
<Non è successo niente.> replicò l'altro con la voce rauca, ma allo stesso tempo flebile e spezzata. Kou gli accarezzò le guance coi pollici. <Mi sono chiuso dentro, intendevo lavorare, si è scaricato il telefono e qui non mi fa male la schiena.> alzò lo sguardo verso di lui. <Non intendevo farti preoccupare.>
Io non mi sono affatto preoccupato. Mi sono solo venuti una ventina di attacchi di cuore.

Kou lo strinse teneramente a sé. <Mi sa che stai tralasciando qualcosa.> Joyce gli rivolse una debole occhiataccia facendolo ridacchiare.
<Ti porto qualcosa da mangiare?> lo vide abbassare di nuovo lo sguardo. Sospirò. <So che c'è dell'altro.>
Joyce nascose le mani nelle maniche della felpa. <L'ho vomitato, okay?> sibilò.
<Che cosa?> chiese Kou preso alla sprovvista.
<Quasi qualsiasi pasto io abbia mangiato.> replicò l'altro, rimettendosi il cappuccio. <Non giudicarmi.>
<Non lo farei mai.> gli assicurò Kou abbracciandolo, <Ma se ti va pranziamo insieme e ti sto vicino subito dopo.> sentì Joyce rilassarsi leggermente tra le sue braccia. Sapeva che non era debole, perché non lo era. Così glielo disse: <Sei la persona più forte che io conosca.>
L'altro alzò allucinato lo sguardo. <Come scusa?>
Kou sorrise.

MamihlapinatapaiWhere stories live. Discover now