Quando l'orizzonte respira - I

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Era un pomeriggio assolato. Mancavano appena due ore alla chiusura degli uffici del terzo settore del Bosco, quando all'unità medica arrivò una chiamata allarmante. Si trattava di una richiesta di soccorso da parte dei sirenidi, i quali si erano impegnati a contattare il prima possibile, lottando contro i vari ostacoli che il loro mondo poneva nei confronti delle comunicazioni; erano agitati e confusi – spaventati –, tanto da far pensare a una situazione disperata, anche perché il tragitto per raggiungerli era battuto solo fino a un certo punto.

Non erano stati chiari, avevano parlato di un essere insolito che avevano trovato al largo. Questo animale, senza né coda né sfiatatoio, non apparteneva di sicuro al mare, e annaspava boccheggiando fra le onde, più morto che vivo.

Da copione, gli archi neri con competenze mediche erano quasi tutti occupati e sapevano già dove avrebbero passato la notte nel Bosco, l'unico che restava non avrebbe avuto abbastanza tempo per tornare a casa dopo, e non aveva nessuna intenzione di muoversi senza la certezza di un riparo dove potersi proteggere dal Banchetto.

Viste poi le scarse possibilità di riuscita di quella missione, tutti pensarono che il più idoneo a portarla a termine fosse Ocram. La sua dimora era la più vicina agli uffici, tanto che poteva tranquillamente essere raggiunta a piedi, e l'idea che all'arco nero non facesse differenza avere a che fare con un essere vivente o con un cadavere era piuttosto condivisa. Non solo per le lacrime che danzavano sotto al suo occhio, ma perché Ocram spesso scherzava sulla sua condizione di assassino, rideva quando qualcuno provava a chiedergli come avesse potuto arrivare a tanto e reagiva in modo aggressivo se questo non si accontentava di una sua scrollata di spalle.

Il ragazzo sapeva che il suo atteggiamento fomentava pregiudizi e si teneva pronto a incassarli, ma non sentiva il bisogno di giustificarsi nei confronti di chi non aveva interesse nel conoscerlo; si faceva bastare l'essere riuscito a lavorare con i gentili, nonostante l'infamia che gli decorava la guancia.

Mentre si avvicinava il più possibile con la Jeep alla spiaggia, vide, al largo, il torso di uno dei giganti del mare. L'abominio lo scrutava e si capiva che lo stava aspettando, perché appena si accorse di lui iniziò a sventolare le braccia in aria.

Ocram non aveva certo bisogno di quegli interessi di ansia, e sapeva che probabilmente gli sarebbe convenuto correre a piedi, visto che il terreno, una volta persa la carreggiata, si stava facendo sempre meno confortevole, ma in auto aveva degli strumenti che avrebbero potuto rivelarsi indispensabili.

Dal racconto dei sirenidi doveva essere proprio stato quel cetaceo a trovare il naufrago e a cercare di trarlo in salvo consegnandolo ai più piccoli, visto che per lui era impossibile avvicinarsi alla riva.

Ocram stava guidando da almeno trenta minuti, e dubitava che avrebbe trovato l'alieno ancora vivo. Stringeva i denti da quando era partito; il primo istinto fu quello di non accettare l'incarico, ma avrebbe azzerato le possibilità di vittoria: la testa non gli permetteva di scartare una speranza e il suo stomaco cercava di prepararsi all'impatto, perché la morte non è mai silenziosa, anche quando non fa rumore.

Quando l'auto superò l'ultimo gradino naturale di roccia nera, passando dalla vegetazione occlusiva alla sabbia cedevole e in pendenza della riva, scivolò di sbieco verso il litorale; e Ocram fu costretto ad aprire la portiera e sporgersi con quasi tutto il corpo, per mantenere l'equilibrio e non farla ribaltare, finché non raggiunse il piano. Procedette cauto, un po' slittando un po' assecondando, senza mai toccare l'acceleratore, e capì subito dove doveva recarsi: tre sirene si erano trascinate fuori dall'acqua, mentre due osservavano in lacrime la scena dal loro elemento naturale. Dalla boscaglia erano sopraggiunti anche cinque o sei naga, famosi per la loro curiosità.

L'altra parteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora