Quando l'orizzonte respira - IV

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La mattina successiva, Ocram si svegliò con almeno mezz'ora di ritardo rispetto alla sua tabella di marcia. Gli davano noia i cambiamenti, e ormai aveva imparato a conoscersi: ogni volta che, nella sua vita, era costretto a svoltare in modo brusco, doveva ricominciare da capo e inciampava, saltellava, si innervosiva. Non si trattava solo di adattarsi, quello poteva anche essere stimolante, il problema era la sofferenza diversa, quella che ogni volta doveva imparare da zero.

Da che ricordava, il destino, o il Diavolo, non gli aveva mai dato molto spazio per respirare, ma qualcosa era cambiato negli ultimi anni.

Una vita incastrata in una sequenza di azioni sempre uguali.

Forse non era quello che il Diavolo si aspettava da lui, perché non stava dimostrando soddisfatto della lenta e rilassante tranquillità che aveva trovato nella solitudine, forse... 

Ocram aveva sbagliato ad assecondare la quiete che gli si era proposta una volta diventato autonomo; eppure stava bene lontano dalle risate di Hajar e dalle sue manie di grandezza, dall'odore della morte che si respirava in ogni stanza, dalle urla e dai sussurri – paura e rancore –, dal silenzio di un lutto che era costretto a superare da solo, ogni volta.

Nella quotidianità aveva anche smesso di desiderare che tutto finisse.

Si chiedeva se la colpa di tale interesse fossero davvero quegli occhi tanto particolari, che aveva ereditato dalla madre. Hajar li voleva, lo diceva spesso... Che valesse lo stesso per il Diavolo?

Aveva già immaginato che la fortuna di essere stato scelto a lavorare al terzo settore del Bosco degli abomini non fosse casuale, ma non poteva sperare in nulla di meglio, e aveva preferito non indagare e accettarla come una gentilezza, un segno di scuse.

Le lacrime pizzicavano sotto l'occhio sinistro: non esisteva carezza che gli avrebbe permesso di dimenticare chi era, perché la sua strada si ostinava a essere tortuosa e a ogni dannato tornante non poteva evitare di guardarsi.

In quel momento era solo e fissava il proprio riflesso ancora bagnato dopo essersi lavato il viso. Era un ladro che buttava tutto all'aria nella testa: rompeva mobili, apriva cassetti e rovesciava ogni cosa sul pavimento. La stanza diventava confusa, mescolata, stropicciata, ma gli stracci zuppi di sangue finivano sempre in bella vista, e puzzavano.

Sorrise allo specchio e tirò fuori la lingua. Aveva proprio la faccia da cattivo, pensò ammiccando, e schioccò un bacio verso se stesso.

Illuso.

Scoppiò a ridere per i brividi che gli ghermirono la schiena quando la propria ingenuità gli rifilò uno schiaffo per guancia.

La pace, per Ocram, non era mai stata forte, mai solida e mai sicura. L'ombra di Hajar lo seguiva a ogni passo, e lui non era tanto superficiale da ignorarla. Per quello stava lontano da Sastre e lavorava a ritmo serrato. Ringhiò.

Era stato bene, da solo.

Xara si era alzato prima e aveva dato aria alla casa, il che gonfiò la sua irritazione, perché l'altro sapeva quanto lo rendesse nervoso scombinare gli orari e non gli sarebbe costato nulla svegliarlo.

Poteva anche accettare di vivere con un ragazzino in piena crisi ormonale, ma incontrare ogni giorno il disprezzo negli occhi di un arco bianco e doverne ingoiare le molestie verbali andava ben oltre il suo concetto di tolleranza.

Guardò la ragazza dormire di gusto: aveva un sedere così rotondo e accogliente che gli venne istintivo chiudere le mani e immaginare di sentirlo sotto le dita. Suppose che non si sarebbe svegliata almeno fino a ora di pranzo e preferì lasciarla tranquilla.

L'altra parteWhere stories live. Discover now