Capitolo XI

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Selah si passò una mano sulla fronte, premendo con forza sulla pelle. George camminava avanti e indietro, le braccia dietro la schiena e un'espressione corrucciata sul volto. Le dava fastidio il suo silenzio, il suo pensare a chi potessero essere i veri responsabili, come se ce fossero stati altri oltre a lui, anche se non l'avrebbe mai ammesso. Il principe che non sembrava avere a cuore la protezione del regno non sarebbe durato così tanto sul trono. Aveva cercato di farglielo capire, ma non l'aveva mai ascoltata e aveva trovato la sua ingenuità quasi adorabile. Quei tempi erano finiti e forse era ora di dare ascolto a chi chiedeva un cambio nella dinastia: se George aveva intenzione di trattare quella vicenda con la stessa superficialità dell'attacco a Frinard era bene che lasciasse prendere ad altri le decisioni.

Quattro anni prima, la festa di Gabes aveva significato continuare i festeggiamenti della Notte dei Morti, la fine della campagna militare – il momento in cui c'era stata la certezza che tutta la magia fosse sotto controllo. Se non altro, forse si sarebbero convinti che l'unica soluzione era ucciderli tutti, a partire dall'unica superstite dei flammas ferentes presenti.

Tamburellò con le dita sulla balaustra in cima alla scalinata: avrebbero dovuto riorganizzare l'esercito contro Ethor, ma la sicurezza del regno e della corona avevano sempre la precedenza.

«Di grazia, come pensi di rimediare?»

Il principe si fermò, incrociò le braccia e si voltò verso di lei. Avrebbe dovuto pensare bene alla risposta da darle.

«I diretti responsabili sono già morti e i loro garanti sono già stati fermati. Verranno interrogati e, nel caso, condannati.»

«A questo punto mi chiedo solo come debba procedere con tua sorella.»

«Non puoi condannare Katherine senza prove concrete. Non è un crimine dare fastidio Ma indagheremo anche su di lei.»

Selah agitò una mano. Se avesse potuto, avrebbe creato una legge specifica sull'argomento. «Voglio sperare che la sua decisione di fare da garante sia solo una... disgraziata coincidenza.»

George annuì con un cenno della testa. «Sospetto sia così. Ha sempre intorno poche cameriere, ma soprattutto Datchery e Dankworth. Nessun altro, che io sappia.»

Stropicciò le palpebre. Le aveva strappato appena in tempo la possibilità di far di Rachel quel che voleva: non aveva mai voluto legarsi fino in fondo con quella feccia e ora ne pagava le conseguenze, non avendo nessun altro da usare come dimostrazione di forza.

«Avevi ragione. È stato un errore averli qui, dovevo darti ascolto. Mi dispiace» le disse dopo qualche istante di silenzio.

Selah gli si avvicinò, gli accarezzò una guancia e gli rivolse un piccolo sorriso. «Sistemeremo tutto. Lasciami solo il tempo di capire come muovermi.»

George le strinse la mano, voltando appena la testa per baciarle il palmo. «Mi fido di te, fai quel che ti sembra giusto.»

«Parlerò con Margaret e Gilbert per vedere come bilanciare questo problema con Ethor. Se la situazione al confine non è così terribile, possiamo non focalizzare la nostra attenzione su quella.»

George annuì con un cenno della testa e Selah si voltò verso la sala: senza i corpi e la maggior parte degli invitati, i segni erano ancora più evidenti. Lo stendardo bruciato a terra era il segno più forte dell'attacco, un promemoria che sarebbe potuto essere molto peggiore. I pochi rimasti si erano ammassati contro la parete opposta alle finestre, come se cercassero ancora protezione, come se attendessero un altro attacco.

«Vado a rassicurarli.» George le sfiorò la spalla con la mano.

Selah annuì, poi si appoggiò alla balaustra. Abbassò gli occhi e ruotò ancora il bracciale d'oro, fino ad avere il ciondolo tra le dita: il simbolo di famiglia, un serpente arrotolato su se stesso, era appena più scuro dello sfondo. Non poteva portarci sopra vergogna. Non era quello il motivo per cui aveva lasciato le montagne di casa.

RequiemWhere stories live. Discover now