Capitolo XXII

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Il ticchettare dell'orologio alla parete riempiva il silenzio della stanza, ma Miriam non si sentiva tranquilla nemmeno lì.

Aveva vagato per tutta la fabbrica senza trovare niente di interessante, aveva srotolato i fogli di diversi progetti, ma niente era bastato a distrarla. Era stata la madre a mandarla lontano da casa, prima che rompesse la cassetta delle lettere con il suo continuo aprirla, come se la lettera con i risultati potessero comparire lì dentro da un momento all'altro.

Non le sembrava di poter trovare un posto in tutta la città che le permettesse di staccare la mente dall'esame.

Forse avrebbe dovuto accettare la proposta di andare qualche giorno a Jelas: sarebbe stata abbastanza vicina al confine da poter scappare se le cose fossero andate male.

E più passavano i giorni, meno si sentiva tranquilla: le rassicurazioni di Arthur che due settimane ancora non erano un tempo tale da doversi preoccupare.

Aveva girato per il mercato di Vexhaben, aveva preso un dolcetto alla crema e l'aveva mangiato al parco, sulle rive dello Shellmagne, ma per tutto il tempo aveva avuto in testa il pensiero dell'esame. Da quando l'aveva fatto, circa due settimane prima, non faceva altro che tornare a rimuginare sulle risposte che aveva dato. Era arrivata al punto di sognarsi di notte i problemi.

La cosa peggiore era che aveva trovato soluzioni migliori senza poter modificare quel che aveva già fatto. E più passava il tempo, più si convinceva di aver fatto un disastro. Era stata stupida a uscire dall'aula con la sensazione di aver fatto bene. Non era il momento giusto per illudersi.

Si passò le mani sulla faccia.

Avrebbe voluto solo sapere i risultati, mettersi l'anima in pace e nel caso proseguire con la propria vita, cercare qualche lavoretto in città per contribuire alle spese di famiglia. O forse solo avrebbe dovuto trovare un piano con cui fuggire se le cose si fossero messe male.

Miriam reclinò la testa, incrociò le braccia.

Sollevò il coperchio di vetro del contenitore e tirò fuori un paio di caramelle. Se fosse rimasta lì ancora a lungo, le avrebbe finite e non era certo una cosa per cui avrebbe potuto incolpare Reginald.

Spinse indietro la sedia, afferrò la borsa dal pavimento e uscì dall'ufficio del padre. Una volta fuori, il rumore martellante della fabbrica la investì in pieno.

Si coprì le orecchie con le mani e si diresse verso le scale.

Dal soffitto pendevano diverse catene, i bracci estensibili di carrucole che troneggiavano in alto e che terminavano con diversi tipi di agganci, per lo più uncinati. In basso, la linea produttiva era in movimento. Non sentiva le voci degli operai, ma i gesti ripetitivi che facevano bastavano a rendere l'idea.

Nessuno le avrebbe vietato di curiosare in giro o di dare la caccia a pezzi caduti a terra che nessuno avrebbe considerato e non sarebbe stata la prima volta che ciò che trovava sul pavimento sudicio – viti, dadi e ruote dentate per lo più – sarebbe finito nelle sue tasche.

Procedette attaccata al muro, lontano dalla linea produttiva per non dare fastidio agli operai al lavoro.

Sul pavimento sporcato da strisciate d'olio giaceva abbandonata una ruota dentata, sfuggitale durante il primo giro.

Se era lì, non sarebbe figurata in nessun inventario. Una in più che poteva sgraffignare e nascondere in qualche ingranaggio. Poteva usarla per l'orologio del salotto che continuava a bloccarsi.

Le dispiaceva lasciarla lì.

Tolse con il dito il leggero strato di polvere che si attaccò alla pelle e la macchiò di nero, poi decise di proseguire, avrebbe potuto tirare fuori un bottino interessante.

RequiemWhere stories live. Discover now