Capitolo XXVI

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Il momento dell'anno che Katherine preferiva erano le serate dei giorni in cui l'afa lasciava il posto a una frescura che rendeva ogni evento più sopportabile, quando si poteva tornare a respirare.

E per una serata non avrebbe dovuto preoccuparsi di fare un passo sbagliato, di far finta di essere felice dell'essere nell'ombra del fratello, di dover seguire il protocollo. Avrebbe voluto che quella notte non finisse mai, che continuasse a essere la stessa, giorno dopo giorno, portandosi via le preoccupazioni della corte.

Quando la carrozza si fermò, si sporse appena dal finestrino: non sembravano esserci altri invitati.

Il piazzale circolare, che si allargava davanti a un cancello decorato da decorazioni floreali, era illuminato dai lampioni: facevano luce solo al pietrisco il cui grigiore nei punti intorno ai pali acquistava sfumature rossastre. Quando lo scalpitio degli zoccoli si era fermato, erano rimaste solo le cicale a spezzare il silenzio.

Katherine tornò ad appoggiarsi allo schienale imbottito, fissando di fronte a sé: era sicura di aver controllato più volte giorno e orario scritto sull'invito. Certo, poteva comunque essersi sbagliata, ma anche George aveva rammentato la festa durante la giornata e non era solito farle scherzi del genere: per quanto fosse un evento privato, ci tenevano a non fare una brutta figura.

L'orologio aveva suonato la settima ora della sera. Sull'invito c'era scritta la nona. Fece ruotare il bracciale d'oro al polso, indecisa su cosa fare o dire al cocchiere. Se solo non avesse lasciato l'invito a palazzo nella fretta di prepararsi.

Si strinse la radice del naso tra le dita: se Arthur l'avesse costretta a fare una pessima figura gliel'avrebbe fatta pagare. E se avesse sbagliato giorno, se avesse fatto cambiare i piani a corte per la serata con così poco preavviso per niente, la propria reputazione sarebbe affogata nello Shellmagne.

Si voltò verso la porta quando fu aperta dall'esterno. Sorrise, quando riconobbe Arthur alla poca luce che arrivava al punto.

«Dimmi che non sono in ritardo o che il giorno è sbagliato.»

Arthur si portò una mano sul petto, accennò a un inchino e poi scosse la testa. «No, sei in perfetto orario... almeno quello che ti ho detto io. Gli altri invitati arriveranno... tra un po'.»

Katherine tirò un sospiro di sollievo. «Potevi avvertire.»

«Pensavo fosse ovvio.»

Appoggiò la propria mano su quella che Arthur le porgeva.

Sollevò il vestito e scese i due gradini; una volta in terra, si voltò verso il cocchiere.

«Altezza, ci vediamo domani mattina. Passate una buona serata.»

«Grazie.»

Arthur rimase in silenzio finché non arrivò al cancello che spinse appena in avanti, lasciando solo quanto spazio bastava a entrare.

«Le voci sono vere? Che hai accettato un incarico nel governo?»

Nella siepe che costeggiava il viale che portava all'ingresso della casa erano state sistemate fiaccole che spandevano nell'aria un leggero profumo di cera bruciata.

«Sì e no. Me l'hanno proposto, ma ancora non ho dato la conferma.»

E la pressione esterna anche. Ancora mancava qualche giorno al ricordo della vittoria di Sorias, ma più tempo impiegava nel dare una risposta, più la corte sembrava disapprovare.

«Pensi di farlo?»

Katherine serrò le labbra e strinse appena di più la presa sul braccio di Arthur. «Forse dovrei. Volevo parlarne un attimo stasera, con te e Miriam, lontano da palazzo.»

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