Capitolo XIII

115 16 38
                                    

La rosa bianca di Gabes iniziava ad appassire. Katherine staccò un petalo più raggrinzito degli altri e se lo rigirò tra le mani. Invecchiato, ma ancora soffice come quando era stato raccolto.

L'orologio rintoccò la nona ora della mattina. Non poteva più aspettare ancora o sarebbe stata in ritardo: l'ultima cosa che voleva dare a George era un altro motivo per lamentarsi di lei.

Lasciò il petalo sulla scrivania, raccolse il plico di fogli riguardanti la Redgold e uscì dalla stanza.

Non aveva alcuna voglia di affrontare quell'incontro. Non sarebbe riuscita a concentrarsi come avrebbe voluto con il sapere Miriam alla Voragine e Selah l'avrebbe raggirata, costretta a lavorare per lei. Non poteva nemmeno dare supporto a Rachel – le motivazioni di sicurezza con cui l'aveva costretta a rimanere a palazzo non avevano mai convinto del tutto Katherine.

Che minaccia ci poteva essere alla Voragine, se non Selah stessa?

Era suo diritto essere là con loro.

A ogni passo sul tappeto rosso al centro del corridoio l'eco dei tacchetti si infrangeva contro la stoffa.

Non poteva tirarsi indietro a quel punto.

George l'aveva bloccata in quel ruolo, ma se da lei si aspettava che non avrebbe fatto un pessimo lavoro, l'unica soluzione era dimostrargli il contrario, anche se avrebbe significato prendere parte alla politica dei futuri. L'avrebbe fatto, se era un modo per rovinare loro le giornate.

Voleva ignorare il più possibile i quadri alle pareti: si sentiva giudicata dai suoi stessi antenati. Le avrebbero dato tutti della pazza per la sola volontà di continuare su quella strada: per mettere a tacere le voci di tradimento doveva solo ammettere che a Gabes aveva bevuto troppo, che aveva parlato a sproposito e che sarebbe tornata al suo posto. Non sarebbe stata la prima a rimangiarsi la promessa. Aiutare la Voragine e andare contro la corona era una mossa che nel peggiore dei casi l'avrebbe ricompensata con una condanna per tradimento e da sola avrebbe macchiato il nome della dinastia che regnava su Vexhaben da quando si era iniziato a segnare nelle cronache.

Alla fine la curiosità ebbe la meglio. Rallentò il passo e si voltò verso sinistra: gli occhi dei volti dipinti sembravano seguire ogni suo movimento.

Strinse la mano sul medaglione: il palmo premette contro le ali della falena, lo stesso simbolo nascosto in ogni dipinto. Generazioni e generazioni che non avevano mosso un dito per cercare un equilibrio, trascinando Vexhaben in un oblio sempre più denso.

«Mi dispiace» mormorò, abbassando lo sguardo.

Piegò il polso, quanto bastava per vedere la faccia anteriore del ciondolo. La falena era circondata dal motto della famiglia reale ripetuto due volte per formare un cerchio.

Quando l'aveva ricevuto, ricordava di averlo portato con orgoglio per giorni.

In quel momento era un peso, ma era anche la sua unica arma contro Selah.

Quando spinse la porta in avanti, la sua entrata fu accompagnata dal fruscio di vestiti e dallo stridere delle sedie sul pavimento. Salutò i presenti con un cenno della testa e si diresse a capotavola.

L'afa della giornata già pesava. Aveva preso i fogli, ma nessun ventaglio.

Il pavimento di marmo bianco con venature scure brillava sotto i raggi della Vol che entravano dalle cinque finestre alla parete, ma non arrivavano ancora al tavolo.

Qualcuno accennò un inchino e Katherine sorrise. Potevano anche avere intenzione di tenerla nel lato della politica di cui nessuno voleva occuparsi, ma almeno qualcuno ancora rispettava la sua autorità.

RequiemDove le storie prendono vita. Scoprilo ora