𝐈

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Hey, Luke
Dire che mi manchi è un eufemismo. E no, fino a pochi istanti fa non avevo idea di cosa "eufemismo" significasse. Me lo ha detto Audrey. Mi dispiace, fratello, ma ancora non ho coronato il tuo sogno di trasformarmi in un colto figlio di puttana con i risvolti ai polsi e la faccia pulita, quindi probabilmente ci vorrà del tempo prima che impari parole come eufemismo e coronato (questa me l'ha suggerita Ashton. Dice che non sa se è giusta, peró mi è piaciuta).
Sono passati diciassette giorni da quando te ne sei andato. Continuo a chiedermi quand'è che tornerai, anche se alla fine so che non lo farai. Ho sentito la Brown dire a mamma che è la prima fase del lutto, la negazione. La mattina continuo a svegliarmi e preparare la colazione anche per te, come un tic nervoso, e quando mi ricordo che non sei in casa accendo il telefono e guardo il tuo ultimo accesso. Vado in soggiorno, poi, come se fossi convinto che si tratti di un brutto sogno, e quando vedo la tua urna mi metto a piangere fino a quando è ormai tardi e Calum mi sta chiamando per avvisarmi che è fuori con Audrey ed Ashton, e che mi stanno aspettando per andare a scuola. Lì tutti mi guardano come se fossi una bomba ad orologeria pronta ad esplodere da un momento all'altro. Non riesco a dormire. Non riesco a guardare le moto. Ogni volta che ne vedo qualcuna sfrecciare per strada vado nel panico e chiudo gli occhi portandomi le mani alle orecchie, urlo per sovrastare il rumore e frenare il cervello che continua a riportarmi alla mente il sangue e i tuoi occhi spenti e il tuo petto immobile. Non ho fame, il solo sentire il cibo in bocca mi fa venire voglia di vomitare. Ieri Calum e Audrey mi hanno trascinato in ospedale quando sono svenuto per essermi alzato troppo velocemente. Dicono che ho perso troppi chili e che non posso tirare avanti con succhi di frutta e barrette energetiche a colazione. Non credo che hanno ragione, stanno enfatizzando tutto, anche se non mi guardo allo specchio da settimane e certe volte non ne sono così sicuro. Comunque non mi interessa.
Torno tardi a casa, sto tutto il giorno con Audrey e Calum e Ashton, anche se la maggior parte del tempo vorrei starmene da solo e zittire tutti, ma loro hanno paura che possa perdere le staffe e finire a fare chissà cosa. Quindi non mi lasciano un secondo di pace. Si accertano che io sia stanco e mezzo addormentato quando mi lasciano tornare a casa, così entro in camera al buio, fingo che tu stia dormendo nel tuo letto e mi lascio cadere nel mio.

Ci ho provato, a farla finita. Pochi giorni fa. Ho finto di essere stanco per poter starmene da solo e, quando sono tornato a casa, dormivano tutti; persino Lily se ne stava tranquilla sulla sua culla. Il pensiero che quando sarà cresciuta non si ricorderà di te mi ha dato il voltastomaco.
Ho fatto i compiti per tenere la mente impegnata. Volevo stare solo, ma non solo con la mia mente. Tutto ciò che potevo fare era cercare di farla funzionare nel modo meno distruttivo possibile.
Ma dopo poche ore i compiti erano finiti, e la mia capacità di concentrazione esaurita, e allora mi sono messo a riordinare le tue cose. Ho detto a mamma di volerle tenere, comunque, come se prima o poi saresti tornato. Ricordo che mi ha rivolto uno sguardo sconsolato, triste, disperato e compassionevole, ma vuoto tanto quanto quello che mi portavo dietro da giorni.
In ogni caso entro pochi secondi sono scoppiato a piangere, e nell'unico attimo di lucidità è lì che ho capito che non saresti più tornato. Che il mio fratellino se n'era andato per sempre. E allora ho ripescato una pistola dal borsone sotto al letto, l'ho caricata e ho osservato il mio volto riflesso nello specchio del bagno, con il mirino puntato alla tempia. Lo stesso bagno in cui tu, quasi tre anni fa, mi hai salvato la vita. E ora io ero lì per togliermela. Di nuovo.
Una volta mi hai detto che la vita è un cerchio, che siamo qui a commettere gli stessi errori ancora e ancora, fin quando il cerchio viene spezzato, e i tasselli sono finalmente liberi di ritrovare la loro strada. Un solo proiettile e il cerchio si sarebbe spezzato per sempre.
Quella volta, con lo stomaco pieno di barbiturici, ricordo di aver sperato che qualcuno piombasse nel bagno e si accorgesse di come mi ero ridotto, che mi salvasse la vita, perchè a un passo dalla morte mi sono reso conto di non voler davvero morire. E poi sei arrivato tu, che hai sempre cercato di tenermi in vita in qualsiasi modo ritenessi possibile, e me l'hai salvata si nuovo. Peró io non ho salvato la tua. E quindi a un certo punto, con la pistola puntata alla testa, con le lacrime che ricadevano sulla maglia e il labbro sanguinante tra i denti ho pensato che ora toccava a me, salvare una vita. Che dovevo saldare il mio debito. Dovevo rompere il cerchio. Non sono riuscito a salvare la tua, ma ero ancora in tempo per salvare la mia. E allora ho tolto i proiettili dalla pistola, li ho buttati nel cesso, e ho pianto per tutta la notte. Ma sono riuscito a dormire, e ti ho sognato. Mi hai solo sorriso. Poi hai annuito, e ci siamo seduti sul tetto a guardare l'alba. Non ci siamo parlati, non ci siamo abbracciati. Sapevamo entrambi che era meglio così.

Sono passati solo diciassette giorni, ma sembrano anni. A volte non ricordo la tua voce. Devo riascoltare i messaggi che mi lasciavi in segreteria quando non ti rispondevo alle chiamate. Ogni tanto li ascolto per fingere che non è cambiato nulla, che sei ancora dall'altro capo del telefono a minacciarmi che se non ti rispondo entro dieci minuti mi farai saltare la testa. Prima ignoravo quei messaggi, sbuffavo quando mi tartassavi di chiamate. Ora sono tutto ciò che mi è rimasto di te. E mi dispiace se poi non ti ho richiamato entro quei dieci minuti.
Vorrei averlo fatto.

BOREDWhere stories live. Discover now