17 ✘ 𝐓𝐈𝐋𝐋 𝐃𝐄𝐀𝐓𝐇

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「 𝐂𝐚𝐫𝐭𝐞𝐫 」

Mi guardo intorno. La classe è sprofondata nella confusione più totale.
Il gruppetto delle finte modelle si è impadronito dell'ultimo banco e ogni membro del gruppo è appostato con la propria sedia attorno al tavolo. Un astuccio pieno di trucchi viene passato da mano in mano, chi si fa le sopracciglia, chi il rossetto, altre ancora si divertono con il fondotinta e una spazzola per capelli. Quell'angolo della classe sembra esser diventato un completo salone di bellezza. Una di loro tira fuori uno specchio dallo zaino.

Poi c'è il secondo gruppo, quello senza nome, dove parlano tutti seduti al proprio banco e, per farlo, urlano come i venditori ambulanti. Volano pezzi di carta e penne masticate, poi un libro fino a quando la professoressa riprende uno di loro e allora sembrano calmarsi temporaneamente. Due minuti dopo vedo lanciare una scarpa dall'ultima fila, e quella va a finire precisamente nel cestino, dopo essersi scontrata sul muro. Qualcuno urla e la professoressa si prende il volto tra le mani.

Il terzo gruppo (i polli, così li chiama Calum) sta rollando quelle che possono pure sembrare canne, appostati a schiera in modo tale da non farsi vedere. Il prodotto finale viene passato da sotto il banco, poi l'ultimo della fila le ficca tutte nel pacchetto di sigarette vuoto che ha nelle tasche. E ricominciano a girare le cartine.

Io e solo altre due povere anime ce ne stiamo zitti ai nostri posti. Con le braccia conserte e le palpebre che si chiudono da sole, tento di stare sveglio e distrarmi come posso. Sono passati due giorni dalla crisi, e ho ancora un sonno del cazzo.
Le altre due ragazze, le due secchione della classe (voti e comportamento impeccabile, il prototipo di persona che tutti aspirano io diventi), cercano inutilmente di prendere appunti. Che sia per colpa del gran baccano o delle scarse doti d'insegnamento della professoressa, nessuna delle due ci riesce e finiscono per arrendersi dopo circa un quarto d'ora.
Sembra tutto più caotico e insopportabile quando non c'è Calum seduto nel posto accanto al mio. Quel coglione doveva ammalarsi proprio quando io sarei tornato, che stronzo.

Allora torno a guardare il gruppetto delle Barbie da bancarella, che adesso si contendono un mascara.
«Jeanie, mi serve la felpa.» Uno dei Polli accenna alla felpa che ha prestato un'ora fa a Jeanie Cooper. Lei annuisce e si alza in piedi, sfilandosi la felpa dalla testa, nonostante quella abbia la cerniera. La t-shirt che ha sotto le si alza fino a scoprire il reggiseno in pizzo, e allora un altro gruppetto di polli si lascia andare in versetti compiaciuti. Lei lancia la felpa al proprietario e torna a sedere con uno sguardo soddisfatto dipinto in volto. Due ragazze del gruppo senza nome le scoccano delle occhiate schifate.

«Dammelo, è il mio turno!»
Due make-up artist hanno iniziato a litigare. Buffo. Fanno finta di essere amiche per la pelle e poi si arrabbiano per un mascara.
Tutte le Barbie made in China si schierano da una delle due parti. Quella di destra che dice di essere stata autorizzata dalla proprietaria del mascara, e l'altra che sembra avere una così grande esigenza del medesimo oggetto da sembrare in fin di vita.
Alla fine la ragione se la prende quella che sta per morire dalla disperazione solo perchè ha un'amica in più, e a ricreazione deve vedersi con uno e allora la priorità è quella seconda (se non terza) passata di mascara mattutina. Allora l'altra si alza dalla sedia impettita, chiede il permesso di uscire dalla classe biascicando le parole, ma si sbatte la porta alle spalle ancor prima che la professoressa le abbia risposto.
Allora lei le corre dietro e affida il compito di sorveglianza alla professoressa di sostegno, che fino a poco fa tentava di calmare le acque con un "shhh" demotivato.

Ma, purtroppo o per fortuna per lei, la campanella suona e una baraonda di studenti si riversa per i corridoi.
Io me ne sto seduto al mio posto, senza dire niente, completamente solo in classe. Non ho voglia di scendere e stare con i ragazzi. Non ho voglia di alzarmi dalla sedia ne' di puntare lo sguardo oltre il palmo della mia mano. Sono stanco, mortalmente esausto.
Tamburello la penna sulla superficie in legno del banco e osservo la scritta intagliata, quella che ho tentato di cancellare, ma che in controluce si vede ancora.
Fino alla morte.
Non ho niente di meglio da fare che chiedermi chi l'abbia scritta. Perchè, per chi. Mi chiedo se l'artefice e la persona a cui è dedicata si parlino ancora, se hanno litigato, se si amano come si amavano quando sono state incise queste parole.
Decido di non farmi troppe domande.
Mi alzo, vado alla cattedra a ripescare il mio cellulare dalla scatola e mi chiudo in bagno.
Altre scritte. Altri "Ti amo", insulti, numeri di telefono scritti a penna sulla porta, sui muri, persino a terra.
Sento quelle parole osservarmi. Mi opprimono, mi gonfiano di botte, mi prendono a calci. Parole su parole su parole che mi costringono a chiudere gli occhi, inginocchiarmi davanti al cesso e ficcarmi due dita in gola.
Ripenso ad Audrey e ai suoi bracciali che l'anno scorso le scivolavano via dai polsi. Ripenso a quegli stessi bracciali, ora che calzano a pennello e non cadono più. Non vorrebbe che io lo facessi. Il suo pensiero mi costringe e togliermi la mano dalla bocca.

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