3. Una vita rubata

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Abbandonai la scuola a quattordici anni, come fece la mia compagnia. Iniziammo tutti insieme l'apprendistato, chi per divenire falegname, chi per divenire minatore, chi per fornire il proprio contributo all'attività del padre.

Lupus, invece, andò dritto ad arare i campi.

Rimase a scuola solo la bella Liliana. Lei aveva un destino ben diverso dal nostro. La figlioccia del sindaco doveva studiare fino alla maggiore età per trovarsi un degno compagno di vita. Il matrimonio, ecco cosa l'attendeva, il più onesto ed elegante tra i lavori.

Ortensia fece l'apprendistato con me. Iniziò a lavorare un anno prima, era già piuttosto portata con ago e filo. Io invece impiegai molto più tempo per apprendere il mestiere a dovere.

Rosaspina faceva la commessa nel negozio del padre. Un lavoro gravoso e indegno per una mente brillante come la sua, contando che stava in mezzo a carne rancida, mosche e putridume per tutto il santissimo giorno. Ambiva però a sposarsi. Ovvio, col bel Leon. Un matrimonio del genere non le avrebbe procurato una fortuna sufficiente da permetterle di interrompere la sua mansione, ma sarebbe comunque stato la realizzazione di uno dei suoi più grandi desideri: andare in moglie all'uomo più bello di Is Nöa.

Società arcaica e triviale, la definiva Elijah. Mi chiedevo come nel regno degli inferi potessero funzionare diversamente le cose. Lui sosteneva che una donna non doveva pensare di elevarsi solo sposando un uomo ricco o affascinante, che ci fossero altri modi per raggiungere l'autorealizzazione. Ma quando gli chiedevo quali fossero, non sapeva rispondermi.

L'amara verità era che nell'isoletta di Nöa le cose erano sempre funzionate così. E al popolo andava bene così. Non c'era violenza, a Nöa, non c'erano furti, stupri, omicidi. Al massimo due contendenti potevano darsi un paio di sberle alla locanda, davanti agli occhi sprezzanti di zio Aves; due ragazze potevano litigare per chi avesse il diritto di sposarsi durante il plenilunio al tempio della Dea Suprema. Qualcuno poteva contrarre qualche debito.

Fare la sarta era un lavoro che detestavo, ma non sarei stata costretta a trovarmi un buon marito tra i miserabili uomini che popolavano l'arcipelago, e soprattutto avrei potuto prendermi cura di mio padre, che per quanto pelandrone fosse, era pur sempre tutto ciò che mi rimaneva.

Oltre a Elijah.


«Sei in ritardo!» mi gracchiò contro zia Amaryllis.

La chiamavamo zia, anche se era una rinomata zitella che non possedeva parenti a Is Nöa. Lei sosteneva di essere arrivata dall'isola di Muun, nessuno però le credeva. Con ogni probabilità proveniva semplicemente da Ehn Nöa. Da quando ero nata, lei era la vecchia zia Amaryllis che dirigeva la più grande sartoria sulla nostra isola. Che poi era un semplice palazzo di due piani in cui lavorava poco più di una dozzina di ragazze. Non eravamo in tanti, a Is Nöa.

La giornata iniziò male. Ero stanca e avevo la testa altrove.

Commisi un sacco di sviste. L'orlo del vestito della signora Flora mi uscì storto, i pantaloni scuciti di Crocodili furono rammendati con un filo rosso mattone invece che rosso ruggine, dovetti stirare di nuovo due abiti che mi tornarono indietro e persi un filo cobalto mentre intessevo un tappeto di lana.

«Cos'hai nella testa oggi? Ovatta? Sei più stupida e impedita del solito!»

Stava tramontando il primo sole e io pregai col cuore in mano che non mi facesse fare gli straordinari. Non avrei potuto rimediare in alcun modo alla giornata non prolifica, anzi, sarebbe soltanto peggiorata.

«Bada bene, giovincella, che sei davvero sulla brutta strada! Impara a chiudere le gambe e dedicati di più al tuo lavoro, o vedrai la fine che farai!»

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