23. Un re molto paziente

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Sudata e in vestaglia da notte, cominciai a battere con foga i pugni contro la porta della mia camera. Urlai, supplicai, piansi.

«Devo vedere il re! È urgente! Vi prego, devo vedere il re, devo assolutamente vedere il re!»

Mi uscivano frasi raffazzonate, provavo a convincerli del mio stato di necessità. Poi iniziai a strillare, tirare calci, insultarli in entrambe le lingue.

Mi astenni dal maledirli, perché il racconto di Persea aleggiava ancora nei meandri della mia mente. Non sapevo se le mie maledizioni avessero effetto, non volevo far del male a nessuno. Non ad altri innocenti come me.

«Vi scongiuro! Ho commesso un terribile errore, un terribile errore!» Singhiozzavo come una bambina. Le guardie mute non aprirono nemmeno uno spiraglio.

Non mi rimase nient'altro da fare.

Tempestai il muro di colpi fino a grondare sangue, nocche scalfite da cui sporgeva l'osso.

Solo allora si decisero a dischiudere la mia prigione.

I soliti due gendarmi elfici, i volti austeri e i capelli biondi legati in trecce sottili che scendevano fino ai polpacci, osservarono prima le mie condizioni, poi il liquido purpureo che aveva imbrattato intonaco e sottoveste.

Una delle due sbuffò. «Portiamola da lui.»

L'altro ribatté qualcosa nella loro lingua madre, con gli occhi celesti spalancati dall'irritazione.

«Ma l'hai vista? Questa svitata è capace di ammazzarsi. I mortali sono fragili. E se morisse dissanguata? Te ne assumerai tu la responsabilità, Mel? Glielo andrai a riferire tu a sua maestà?» insistette il compagno.

Quello scrollò con noncuranza le spalle.

«Vi prego, mi assumerò io la responsabilità, dirò che vi ho costretto! Vi scongiuro, vi supplico, è urgente, è davvero importante!»

I due si fissarono un'ultima volta. Erano così simili che per quanto mi riguardava avrebbero potuto essere gemelli.


Non mi volli vestire, non mi infilai nemmeno le ciabatte. Continuai per tutto il tragitto a incalzarli di accelerare il passo, percorsi l'ultimo corridoio quasi correndo.

La camera del re si trovava in cima alla torre nord, quella da cui si erano gettate le umane dopo aver ucciso il fratello maggiore. Era un'ala del castello fredda e disadorna; pavimento di pietra, nessun arazzo o dipinto, poche finestre con sbarre di metallo, nessuna luminaria, nessuna luce fatata che fluttuava.

La sua stanza era alla fine dell'androne. Non vi erano guardie ad attendere davanti all'imponente ingresso intarsiato d'oro, solo numerose rune magiche che formavano un criptico ghirigoro che nulla aveva di casuale. Il cuore mi si raggrinzì in petto quando mi tornarono in mente le rune maligne che avevo scritto contro Elijah.

Prima che potessero fermarmi, bussai alla porta e l'aprii senza attendere risposta.

Anistamai sorrise, per nulla sorpreso da quell'entrata in scena. Come se ci attendesse.

Noi altri, invece, trattenemmo il fiato.

Era a torso nudo e si stava allacciando i pantaloni. L'addome muscoloso sporgeva volgarmente, pallido e glabro, sopra la cintura che si stava stringendo in vita. Le creste iliache convogliavano lo sguardo là dove non avremmo dovuto guardare. Le spalle erano enormi, sproporzionate rispetto ai fianchi, le braccia spoglie erano così possenti che sarebbero state in grado di sollevare due carri di buoi a Nöa.

Ma la cosa che rapì il nostro fiato fu il taglio laterale che screziava la sua figura imponente. Una cicatrice netta, rossa come le fiamme dell'inferno, spessa come un ramo d'ulivo. L'attraversava da parte a parte. Il segno che il mio fidanzato gli aveva lasciato. La prova che aveva davvero cercato di tagliarlo a metà.

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