29. Un piano malefico

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Khloris venne a rassettare la camera verso metà mattina. Mi rivolse un sorriso triste, ed io

l'agguantai per un polso.

Era sottile come lo stelo di un fiore.

«Lo so che mi odi, che ti faccio ribrezzo.» Gli occhi verdi si spalancarono, atterriti. «Volevo solo dirti che io ti voglio bene lo stesso. Sei stata la mia prima amica in questo inferno. Mi hai consigliata, mi hai consolata, sei stata dalla mia parte quando nessuno mi reputava niente di più che un animale. Sogno ancora un futuro in cui io e te staremo sdraiate assieme, sotto i soli, beandoci del canto degli uccelli, mangiando crostate così dolci da far male ai denti.»

Come gocce di pioggia, lacrime amare bagnarono le sue guance.

Si allontanò da me, abbandonò il suo lavoro e fuggì dalla porta, senza salutare.

L'avrei rivista solo il giorno della partenza. Quell'addio crudele era la punizione che meritavo.

Sapevamo tutte e quattro cosa stessi per compiere.

Niente e nessuno avrebbe potuto convincermi a desistere.

Non rividi neppure Antheia, durante quelle lunghe settimane. Ma al contrario di Khlo, la mezza sirena non mi portava rancore, tutt'altro.

Era molto impegnata.

Colazioni composte da frittelle dolci con burro fuso e marmellata di fragoline di bosco, cornetti fragranti ripieni di cioccolato fondente, tazze di caffè diluito con latte di mandorle, tisane alle rose addolcite col miele, torte a tre strati ripiene di zabaione...

«Non mangiare tutto! La cuoca è la solita esagerata, così rischia di provocarti un'indigestione» protestò Persea, e mi levò dalle mani una ciambella con un cuore caldo di crema di nocciole.

La terza che avevo mangiato quel mattino.

Contrariamente a ogni aspettativa, il mio consiglio aveva funzionato. O almeno, ne era sicura la demone.

Si era presentata in camera di Mel la sera dell'incidente. Timida e insicura come quando aveva sulle spalle solo un centinaio di anni. Aveva rubato dal mio armadio uno dei vestiti da bambola che Enyo amava farmi indossare, lungo fino alle caviglie, di un intenso blu oltremare.

Non ci fu bisogno di proferire alcun verbo.

Quando l'elfo aprì la porta della sua stanza e se la trovò davanti, profumata di spezie e a braccia conserte, con le guance albeggianti e le labbra appena socchiuse, le saltò letteralmente addosso.

Lei ora dormiva nel suo letto ogni notte, arrivava sempre più in ritardo a lavoro, spettinata e sorridente, sfornava solo dolci per buona parte della mattinata.

Nella guardia non avevo riscontrato molti cambiamenti, ma facevo sempre troppa fatica a distinguerli. Ora mi parevano tutti e due più luminosi.

«Ti venera neanche fossi la dea dell'amore. Tutta questa storia è assurda» sbuffò la nana.

«Ho un piano» le confidai.

L'aiutai a disegnare le rune sul pavimento. Io e lei, sedute sul tappeto, ne discutemmo senza sosta fino a quando il re non mi mandò a chiamare.


«Spiegatemi per quale assurda ragione dovrei acconsentire a tale follia.»

Anistamai era impegnato a scarabocchiare su una mappa incantata. Si era tolto la giacca e l'aveva appesa allo schienale della sedia. La camicia slacciata lasciava il collo scoperto e gli conferiva un aspetto trasandato che lo rendeva particolarmente umano.

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