45. Un matrimonio

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Le emozioni si spensero come le fiamme dei cerini accesi nei cimiteri, quando cala la notte e il vento freddo attraversa le lapidi per accarezzare le tombe dormienti.

Elijah organizzò un banchetto, invitò cortigiani e alleati, decorò il castello come un faceto paesaggio bucolico. C'erano rampicanti fioriti sui tavoli di ciliegio, sulle sedie, sui troni, sui muri di pietra lavica. Luci fatue e verdognole volteggiavano nell'aere, mentre petali e morbido muschio sostituivano i tappeti. Gli spettri servivano tartine farcite di carne al sangue e un liquore vermiglio e corposo su vassoi d'argento.

Per l'occasione mi ero truccata di nero palpebre e labbra e avevo indossato l'abito più osceno che ci fosse nell'armadio. Con ago e filo avevo accorciato e orlato la sottoveste appena sotto l'inguine, lasciando inalterata la gonna di tulle trasparente. Avevo anche approfondito la scollatura, in modo che valorizzasse il seno scarnificato.

Civettavo con chiunque, orchi e folletti, fae con cicatrici così mostruose che faticavo a guardarli negli occhi. Mi soffermai a chiacchierare con un invitato in particolare, un demone biondo dall'incarnato pallido con due profondi occhi neri. Non era molto alto e non aveva le corna, ma mi ricordava lui.

Lo prendevo in giro, mi avvicinavo e mi ritraevo, come se danzassimo senza alcuna melodia. Lo sfioravo con finta casualità e simulavo una risata falsa e maliarda. Lui provava a stare al passo col mio corteggiamento, cercava il re tra la folla, mi fissava i capezzoli tesi sotto il tessuto sottile, la punta della lingua che inumidiva le labbra scure.

«Siete così bella che per voi potrei fare una pazzia» confessò.

Avvolsi un braccio attorno al suo, mi strusciai contro il suo fianco, strizzai l'occhio, gli feci sentire il mio profumo. «Una pazzia? Ma che dite! E cosa fareste?»

Ero un frutto avvelenato; se mi avesse assaggiata, gli sarei rimasta incastrata in gola.

Una vita eterna che crolla ai piedi di una volgare mortale.

Fece per aprire bocca, ma apparì Elijah.

Ne percepii l'aurea prima ancora che la sua figura diventasse visibile, tra la folla.

Non so come facessi a non accorgermene a Is Nöa, non so come gli fosse stato possibile nascondere la sua vera essenza. Non era un demone qualunque, la sua magia era prepotente. Contenuto nello slanciato corpo di un affasciante essere dalle sembianze sia demoniache che umane, la sua natura si tendeva oltre le membra, irradiava un'oscurità implacabile.

Bieco terrore accecò il fae, che si produsse in un profondo inchino. L'intera sala si acquietò, l'attenzione convogliata sulla squallida scena. Si aspettavano uno spargimento di sangue, lo bramavano, la perversione di essere spettatori di un crimine orribile e di sopravviverne illesi.

Era vestito di nero, Elijah, ed era senza corona, il sorriso svogliato.

«Avete fatto la conoscenza della mia promessa sposa, lord Yen. Vi aggrada?»

Quello balbettò qualcosa, trattenere gli sfinteri gli era sempre più difficile. L'odore pungente del suo sudore era imbarazzante.

Risi come una screanzata.

Uno scheletro portò un calice al sommo re, che lo bevve distratto, senza guardarmi in volto. Con un cenno lieve ordinò al fae di lasciarci soli. Lui ubbidì, fuggì dalla sala, incapace di guardarsi alle spalle.

«Quando ti avevo detto di allietare gli invitati in mia assenza, non sono stato molto esaustivo sul come

Ammiccò. Iridi rosse e di un fulgido arancione.

Ricambiai con piacere, lasciando scorrere un dito lungo l'allacciatura della sua giacca. Il tessuto sembrava cucito col ferro «Dicevi di non essere geloso, e invece sei terribilmente possessivo.»

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