37. Una cortigiana mortale

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Notte e giorno aspettai che lui tornasse.

Non ricevetti più visita da Persea o da Khloris.

Antheia invece mi venne a trovare. Annunciò che si era sposata con Mel, secondo gli usi e costumi del suo popolo, in mia assenza. I due si erano scambiati i cuori. Letteralmente. La sirenide mi mostrò con orgoglio una lunga e spessa cicatrice smerigliata che le solcava il seno sinistro fino alla clavicola.

«Possiedo il suo organo, ora. E lui possiede il mio.»

L'abito di iuta aveva un solo spallino, in modo che chiunque potesse ammirare il risultato della celebrazione di un rito antico e inquietante.

La felicità le rendeva il volto ancor più bello e temibile.

«Noi due ci apparteniamo, nessuno potrà più divederci.»

Mi chiesi come avesse potuto l'introverso e cupo fae innamorarsi di una demone tanto abbacinante. Era dolce nel suo sorriso da innamorata, ma ogni fibra del suo corpo emanava scosse impetuose, odorava di un potere tanto intenso da contorcermi le viscere.

Le augurai ogni bene, dal profondo del mio cuore.

Aveva legato i capelli in una lunga treccia a lisca di pesce, proprio come la portavano gli elfi. Ai lobi aveva infilzato due ami da pesca acuminati. Non le ho mai chiesto cosa stessero a significare. Ipotizzai non fossero orecchini, ma armi.



Trascorsi le mie giornate a leggere, in camera, da sola. Non ero mai stata così silenziosa. Non uscivo quasi mai dalle mie stanze, se non per andare in biblioteca. Scaffali alti fino al soffitto, muratura in pietra grezza, tomi impolverati e un umile servo ranocchio che ogni volta si dannava per mettermi da parte volumi nella mia lingua madre.

Ero una contraddizione vivente: era bastato rendermi libera per trasformarmi nella prigioniera perfetta. Umile e mansueta, non protestavo, mangiavo il giusto, mi lavavo e mi vestivo in piena autonomia.

La voce di Elijah si era affievolita, era un ronzio distante durante le mie notti insonni.

Ogni volta che le porte del palazzo si aprivano, correvo in punta di piedi verso il terrazzino al terzo piano, mi sporgevo dalla balconata interna e guardavo giù, all'entrata. Poi tornavo delusa a chiudermi in camera.

L'irrequietezza si era dissipata come una malattia che aveva compiuto il suo decorso.

Ogni tanto osservavo la città fuori dalle finestre, perdevo lo sguardo oltre le colline, mi incantavo. E quando mi rianimavo, di solito mi scoprivo con gli occhi lucidi e le guance umide.

La speranza è una serpe come amica, ti ipnotizza mentre inietta il suo veleno.

Ma io tenevo duro.

"Cresci, Vandelia, cresci!" mi ripetevo, quando la rabbia tornava a farmi stringere i pugni e la voglia di deturparmi le nocche contro la parete diveniva un bisogno irrefrenabile.

Bramavo il dolore a cui ero stata abituata, combattevo contro una pazzia incipiente, una delle più gravi malattie mortali, ma ancora non lo sapevo.

Ero così giovane e ingenua, una ragazzina.

"Cresci, dannazione!" erano le urla di una madre che non avevo mai conosciuto, di un padre troppo assente per starmi a sentire, di tre fratelli morti troppo giovani, tra carbone e lamiere.



Passarono due settimane, tre giorni e tredici ore. Ero raggomitolata a letto con un libricino appoggiato sul cuscino, quando udii il nitrito di un cavallo e un vociare trafelato in cortile.

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