18. Una festa infernale

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Non vennero né Khloris né Persea a vestirmi.

Protestai, piansi, scongiurai le guardie, le supplicai di mandarle a chiamare.

Desistetti soltanto quando minacciarono di far venire la regina madre a sedare i miei capricci infantili.

Mi fecero indossare un abito argentato aperto sulla schiena, con le spalline incrociate dietro il collo, un décolleté audace e due spacchi laterali che arrivavano quasi fino all'inguine.

Ovviamente era stata la principessa in persona a commissionarmelo. Iniziavo a sospettare il motivo. Non era solo per umiliarmi, non era solo per mettermi in mostra. No.

Volevano che Elijah vedesse attraverso gli occhi delle sue spie a corte, volevano che lui sapesse la fine che avrei fatto se mi avesse lasciata lì.

Un'inutile e impotente bambolina degna solo del mercato della carne.

Era una strategia per fomentare la sua gelosia, per convincerlo a firmare il trattato.

Ignorai il mio cuore marcio dietro questa acerba realtà. Lo ignoravo da giorni ormai.

Mi scrutai allo specchio. Ero bella, molto più bella di quanto non fossi mai stata a Nöa. Forse, se mi avesse vista in quel modo, Elijah sarebbe davvero venuto salvarmi.

Avrei potuto sedurre qualunque uomo delle Gemme Sacre, si sarebbero tutti prostrati a miei piedi. Ma mi avrebbero rivendicata?

Qualcuno avrebbe combattuto per me?

I cavalieri salvavano le principesse, non le mungitrici di vacche.

«Potreste mandare un messaggio a Khlo? Anche a Persea e alla cuoca, se possibile, Antheia mi sembra di ricordare. Dite loro che mi dispiace di averle messe nei guai, non volevo. Mi mancano da morire... Non lo farò mai più, lo prometto.»

Le due serve mi fissarono a bocca aperta, si guardarono l'un l'altra sconvolte, scossero all'unisono la testa, raccolsero i loro armamentari e si defilarono.

«Vi prego, riferireste loro questo messaggio? È importante!»

Accelerarono il passo.

«Vi prego!»

Le porte si aprirono e le guardie le lasciarono scappare.

«Ma andate fanculo, stronze!» strillai.

Un riccio ribelle sfuggì dall'acconciatura che mi avevano annodato sulla nuca grazie a un diadema argentato composto a sua volta da una complessa costellazione di diamanti grezzi.

Il re era all'ingresso con la sua maschera da canide, un completo di un blu profondo orlato d'oro puro e una camicia immacolata che s'intonava alla perfezione col pallore del suo incarnato.

Mi zittii.

I nostri occhi rimasero avvinghiati per un lungo e soffocante minuto di raccolto silenzio.

Infine mi fece cenno di seguirlo.

Con i tacchi faticavo a tenere il suo passo lungo. I lembi del vestito si incastravano in mezzo alle cosce e il tessuto rigido graffiava contro i capezzoli nudi. Cercai di sistemarmi la scollatura e sbattei senza volere contro la sua schiena con così tanta violenza che un'altra ciocca di capelli ricadde sul mio volto e il diadema s'inclinò di lato.

«Cosa diavolo state facendo?!»

Ero nera di rabbia, di frustrazione, di vergogna.

«Quest'abito prude» sibilai.

Un sospiro stanco placò la mia ira. «Devo parlare con mia sorella, questa faccenda non può andare avanti a lungo. Ascoltate, io capisco che siate stata allevata...volevo dire educata...» Con la mano disegnò vaghi scenari inespressi. «Insomma, che non conosciate il galateo. Vi prego di rendere la vostra presenza, per me, più lieve della vostra assenza.»

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