41. Un banchetto di benvenuto

557 53 193
                                    

"Volete sapere dove si trova Niegek?"



Avevo vampate di calore e brividi di freddo, rabbia e paura, ero affamata e mi veniva da vomitare.

Non sarei mai tornata a casa. Il re di Airene aveva sempre avuto ragione.

Oppure mi aveva sempre mentito. Il risultato era uguale.

Non riuscivo più a ricordare il suo odore, l'effetto che mi facessero i baci bollenti, le sue mani calde sulla pelle e quegli occhi senza sclera, che sembravano volermi perforare l'anima alla ricerca di qualcosa che non avevo saputo dargli.

"Il vostro valore non risiede in ciò che palesate esteriormente, ma in ciò che tenete segreto."

Chissà cosa intendeva. Non gliel'avevo mai chiesto.

Ogni volta che pensavo a lui mi veniva in mente una figura in ombra, affacciata a un balconcino della torre del lato nord. Corna nodose che svettavano verso un cielo omertoso. La luna non confessa mai i nostri peccati, se li tiene per sé, li custodisce, è gelosa.

Lui mi avrebbe lasciata andare...

«Il re mi ha mandato a chiamarvi. Vi desidera a cena.»

Sobbalzai quando mi trovai il servitore alle spalle. Il cappuccio era ancora calato, ma scorgevo la sua faccia verdognola, raggrinzita come una spugna lasciata a seccare al sole, gli occhi erano troppo distanti dal setto nasale.

Era stato un fae, un tempo? O quello era sempre stato il suo aspetto?

«Non vengo.»

Gli porsi le spalle e continuai a fissare le luci della città, molto più vicine di quelle di Airene.

Non c'erano mura a difesa del palazzo, nessuna barriera magica.

Elijah non conosceva l'istinto di protezione.

«Non lo ripeterò una seconda volta.»

Rimasi ferma nella mia posizione.

Due secondi e mi agguantò per i capelli, mi gettò sul pavimento. Il tappeto morbido non riuscì ad attutire il trauma della caduta, soprattutto non poté fare nulla contro la frusta.

Il cuoio capelluto bruciava ancora quando avvertii il primo colpo.

Urlai, cercai di strisciare verso la porta, ma il secondo mi marchiò la coscia.

Mi contorsi, implorai pietà.

Ritmiche e incessanti, le frustate si abbatterono sulla schiena con schiocchi secchi, senza esitazioni, senza pause. Ma non era quello il momento peggiore, era quello che veniva immediatamente dopo, quando il laccio vibrava in aria sibilando e la pelle scoperta iniziava inveire.

Lacrimai e sanguinai.

Quando ritenne che la punizione fosse perdurata abbastanza, ero un ammasso putrido di carne pulsante. Mi ero morsa la lingua a sangue. Non riuscivo più a parlare.

«Ricucitela» ordinò.

Dei servi entrarono zelanti nella stanza, non li vidi, scorsi solo i camici bianchi e calzari di cuoio e cotone, prima di perdere i sensi.


Elijah era seduto a capotavola con un calice di vino rosso in mano. Aveva pettinato i capelli all'indietro, le bianche orecchie a punta erano scoperte. Quando veniva a Nöa cercava sempre di nasconderle, qua invece ne faceva bella mostra. La camicia sbottonata metteva in risalto un petto glabro del colore della luna. Aveva le gambe divaricate e l'aspetto rilassato di chi si sta godendo una festa tra intimi. Nessun collana, nessun anello, nessuna corona, nessuna inutile ostentazione di potere. Elijah non sedeva su un seggio diverso dagli altri, non doveva mantenere alcun ruolo.

La PromessaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora