26. Un'ipotesi azzardata

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La fonte segreta rifletteva la luce lunare e donava alla pelle di Elijah una sfumatura ancor più nivea di quella reale. A Nöa era visibile di notte solo uno dei quattro satelliti che vorticavano attorno alla nostra dimensione. Altri due rimanevano celati oltre le vette dei nostri monti, uno invece si diceva riposasse al di là del mare.

«Avete ricevuto la mia lettera?» gli chiesi sgarbata e avanzai verso di lui a passo deciso, spalle dritte e pugni serrati.

Lui si stava allentando la cravatta. Mi udì, sorrise, ma non rispose.

«Mi sarai fedele, sciocca di una mortale?» domandò con tono suadente.

Non me ne fregava nulla se era solo un sogno, un ricordo o frutto della sua perfida magia.

Volevo sfogarmi contro di lui.

«Forse non ne avrò voglia.»

Occhi argentati velati di azzurro. Preoccupazione e tristezza, con una punta di blu: paura.

«Hai rischiato di morire un'altra volta.»

Questo non apparteneva alla mia memoria, non aveva mai pronunciato una frase del genere in mia presenza. Forse l'incubo si stava distaccando dalla realtà. O forse lui era davvero qua, nella mia testa.

«Vienimi a prendere! Riportami a casa!» gridai.

«Non posso.» Le sue iridi non mutarono sfumatura. «Apri gli occhi, principessa. Svegliati, amore mio. Questo è l'unico modo per sopravvivere. Apri gli occhi, Vandelia, apri gli occhi.»


Socchiusi le palpebre. Le corna del re creavano trame confuse contro la finestra in vetro fatato. Fissava assorto l'orizzonte, le maniche della camicia stropicciata arrotolate fino al gomito, il collo pallido e nudo, una vena verde che pulsava a fatica, nessuna corona sulla nuca, solo una pioggia di capelli dorati.

Osservava le montagne. Il governatore aveva detto che era lì che era stata sepolta la sua fidanzata.

Il mio corpo era irradiato dal dolore, provai a muovermi ma soccombei ad esso.

Mentre il sonno mi reclamava, udii una voce così triste e prostata che mi spezzò il cuore.


«Vandelia... mi dispiace.»


Vagai nei ricordi, in paesaggi ameni, verdi colline, prati di viole, i volti sfocato dei miei amici d'infanzia, le foreste in cui correvo a perdifiato, il tempio sacro in un giorno festivo, la zia Amaryllis che correggeva un mio lavoro con ago e filo, il profumo di una torta di mele cotogne, mio padre ubriaco sdraiato su una panca, le mucche che muggivano nella stalla diroccata.

Fissavo dall'esterno una ragazza vivace che ballava senza pudore, una falena attorno al fuoco.

La guardavo in disparte, in piedi, in un angolo buio.

Al mio fianco scorsi il profilo magro e slanciato di Elijah. Anche lui la osservava nell'ombra a debita distanza, per non spaventarla. I suoi occhi erano del colore delle arance mature. Si chinò verso il mio orecchio e sussurrò con malizia: «Come avrei potuto non innamorarmi di te?»


Mi risvegliai giorni dopo.

La pelle bruciava meno, mi pareva di essere risorta dalla tomba.

Sul divanetto accanto alla finestra non c'era Anistamai, ma Antheia. La ninfa sfogliava annoiata una rivista, le immagini di vestiti e bellissime fate si muovevano vorticosamente ogni volta che girava le pagine, un turbinio di luci e colori, sorrisi falsi e pose provocanti. Non avevo mai visto nulla del genere. Non v'erano giornali di moda a Nöa.

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