7. Una festa di primavera

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Sognai una festa di primavera.

Ricordi agrodolci che si annacquavano come tempere in un bicchiere d'acqua.


Era una caldissima serata di luna piena. Avevo ballato fino a consumare le scarpe, non solo con Lupus, ma con molti altri uomini di Is Nöa, celibi e ammogliati. Piena di vita, ridente, con gli occhi lucidi e il sangue colmo d'alcol, avevo fatto bella mostra di me, accettando avances molto spinte, alzando impudica la mia gonna di cotone sottile, roteando qua e là come un'amena falena notturna, indomabile e piena di vita.

Non possedevo alcun freno inibitore.

Anche mio padre aveva alzato il gomito. Dopo aver giocato tutta la sera a carte alla locanda del vecchio zio Aves, si era addormentato su una panca di legno, solo e imbronciato come un bambino abbandonato. Non sembrava badasse molto alla figlia svergognata che si ritrovava, colei che avrebbe fatto chiacchierare l'intero villaggio il mattino seguente. Sembrava non vederla, non con gli occhi con cui la scrutavano gli altri.


Mi allontanai dalla festa che era già notte inoltrata. Avevo la testa leggera, i piedi scalzi e le ciabattine in mano. Incespicai per ore nell'oscura foresta di Nim, dirigendomi senza alcun timore verso la mia fonte segreta.

Avevo voglia di bagnare i piedi nell'acqua ghiacciata, forse anche di spogliarmi nuda e fare un bagno al chiaro di luna, godermi il meritato riposo dopo quelle danze furiose, fantasticare, starmene un po' da sola.

Riflettere.

Su ciò che era stato e ciò che non sarebbe più tornato. Su ciò che possedevo e ciò che non avevo mai posseduto, sul senso della vita, il motivo per cui mi svegliavo ogni mattina, la vera ragione per cui mi ostinavo a comportarmi in quella maniera.

Impiegai molto tempo a raggiungere quel luogo remoto, attraverso l'intricata e rigogliosa vegetazione, la pianta dei piedi puntellata di sassi e radici, i calli che si rompevano, le gambe che tremavano per la stanchezza.

Ma quando pervenni alla mia destinazione, non ero sola.

Lui si voltò.

Le sue iridi purpuree mutarono colore, divennero prima argentate e poi di un blu oltremare, passarono dal porpora al giallo canarino e alla fine si spensero in un celeste acceso che riuscivo pienamente a cogliere nonostante la distanza.

La luna brillava come un terzo sole, quella notte, era impossibile celarmi al suo cospetto ed era impossibile per lui sfuggire al mio sguardo inclemente.

Si stava sbottonando una bianca camicia inamidata con alamari d'ematite dorata, quando mi aveva vista arrivare. Un'elegante giacca scura giaceva ben piegata sopra un masso. Dal collo scoperto emergeva una pelle nivea e traslucida, i suoi lineamenti erano algidi e ben marcati. Sopracciglia arcuate, spesse e corvine, come i capelli sottili che gli ricadevano sulla fronte, contornavano due occhi magici che mi fecero tremare il cuore.

Un demone, non v'era alcun dubbio.

Trasalii. Ma non indietreggiai.

Lui colse l'odio viscerale sul mio volto e si pietrificò, con una mano ancora posizionata sul polsino della camicia, la bocca aggrottata e il corpo teso, in stato d'allerta.

Ci fissammo per un minuto che parve durare una vita intera.

Quando lui fece per spostare il peso del suo corpo da quella posizione innaturale, io sobbalzai all'indietro.

«Vade retro, demone dannato!»

Lui mi fissò perplesso e scoppiò in una risata gutturale.

Le mie guance s'infiammarono di vergogna.

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