38.2 Un ritorno di fiamma

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Non sapevo cosa aspettarmi. Camminavo a testa alta, la mia avvenenza era una corazza, la vedevo riflessa nelle finestre scure; era buio pesto ad Airene, era sempre buio quando accadeva qualcosa. Brandivo il cuore infranto come un'arma arroventata. Dicono che i cocci rotti riescano a recidere le carotidi più in profondità dei pugnali. Ne avrei scagliato uno nel collo di quel bastardo, solo per il gusto di veder sanguinare un demone originario.

Non sapevo cosa aspettarmi. Avevo poche speranze, nessuna certezza.

Il ticchettio delle scarpe m'infastidiva, mi venne voglia di toglierle e scaraventarle contro il muro.

Era tutto così sbagliato, tutto così insensato...

Non riuscivo a farmene una ragione.


Quando le porte della sala regale si spalancarono al mio cospetto, ogni dubbio si dissolse nel vuoto.

Un terrore sordo mi attanagliò le membra.

Si stava combattendo una silente battaglia, al centro dell'atrio. Un muro dorato si ergeva come scudo difensivo di fronte al re mascherato, in piedi davanti al trono. La mano tesa in avanti reggeva uno scherma, ma non riusciva a nascondere il tremore incipiente dell'arto in tensione.

Dietro le sue spalle, trovavano riparo la regina madre, raggomitolata su un seggio, e la principessa, altera e sofferente.

La minaccia era una densa coltre nera e roboante, viva e spietata. Lingue scure si abbattevano ritmicamente contro il fuoco dorato, irridendolo, prendendosi gioco della sua fragilità.

Non vi erano scorte, nessun plotone, nessun portavoce.

Il Principe di Niegek, nella sua forma originaria, era un dio. Gli dèi non hanno bisogno di aiuto. Gli dèi bastano a se stessi. Sono completi.

Era fatto della stessa sostanza dell'universo, non aveva forma, nessun vincolo o confine. Era nebbia insaziabile, affamata e arrogante, si avviluppò verso il soffitto per poi ricadere al suolo. Crepò lo spesso pavimento d'ardesia. Non vi era alcuno scopo in quella messinscena, era solo uno sfogo di potere, un atto dimostrativo di vanagloria, un'esaltazione della noia.

Nonostante i litri di tzikir nel mio ventre, iniziai a sentirmi male.

Mi ressi a una colonna di marmo bianco. L'ombra parve scorgere la mia presenza e arretrò, spire effervescenti sondarono la mia persona.

Come d'incanto tutto si fermò.

Il demone assunse la forma di un imbuto, iniziò a vorticare rapido sul proprio centro, il tornado più violento che avessi mai visto. La sua distruttività implose all'interno, si ritrasse in se stessa. Dall'occhio del ciclone, iniziò a emergere una figura.

Spalle ampie, fianchi stretti, lunghe gambe nerborute, un incarnato pallido e una chioma corvina.

Annaspai senza fiato, le mani sudate scivolarono sulla pietra fredda.

Gli occhi furono la prima cosa che distinsi con chiarezza. Arancio, argento, lampi di un azzurro cristallino, punte di rosso, un'esplosione di colori che diede origine a nuove sfumature in due iridi sottili.

Il potere si dissolse, rimase solo un uomo, slanciato e sorridente, e il suo fascino letale.

«Principessa.»

Tese suadente un braccio verso di me.

Io rimasi impietrita.

E allora gli occhi divennero di un blu intenso, blu notte, blu come l'oceano nel pieno dell'inverno.

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