15. Un regalo inaspettato

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La frustata mi abbatté contro la gamba della scrivania. La fronte si scontrò sul legno e un taglio profondo mi incise la schiena fino all'osso.

Un'ondata di energia immerse la stanza.

Vomitai per terra il pranzo, a pochi passi dalla mia mano tremante che implorava pietà.

I due mostri iniziarono a discutere nella loro lingua originaria. Non riuscivo a guardare quell'ammasso di colore, quelle correnti ascensionali, vortici violenti, di un rosso ocra quello della regina madre, oro puro quello del suo re.

La regina fu scagliata contro il muro.

La voce roboante del figlio mi scalfì la pelle.

I capelli mi si sciolsero sulle spalle e i lacci sulla schiena scivolarono via. Le ultime parole che udii pronunciare le riconobbi. Avevo molte lacune nella lingua demoniaca, a scuola l'avevo studiata poco e male, al tempio avevo appreso solo un paio di preghiere a memoria. Il mio vocabolario era scarso, da sola non avrei potuto formulare nemmeno una frase.

Era stato Elijah, con la sua infinita pazienza, a insegnarmela.

«Or ska» tuonò il re.

Mai più.


Il dito bianco di Elijah si avvolse al mio, i suoi occhi ridevano, brillavano di un giallo tenue, come la prima luce del mattino, il pistillo di una margherita appena sbocciata, un canarino che fuggiva dalla gabbia per volare all'avventura.

«Mai più, principessa, mai più userò la mia magia su quest'isola, quando sono insieme a te. Te lo prometto. Or ska. Mai più. Non voglio farti alcun male.»

Le sue labbra suggellarono il patto fatato sulle mie. Profumava di polvere di stelle, di dolcezza, di quello che credevo fosse amore.

E io lo veneravo, lo veneravo così tanto che mi fidai. Era lui il mio unico vero dio, e io gli credetti con tutto il mio cuore.


Due mani bollenti si posizionarono sulle mie spalle. Non mi bruciarono, bensì mi ridestarono e mi sollevarono con dolcezza dal pavimento.

Ogni traccia delle ferite che mi erano state inferte, dal bustino, dalla turpe magia della sovrana, dalla caduta, dalla fustigazione, ogni onta svanì nel nulla.

Nessuna prova del dolore subito, dell'umiliazione ricevuta.

Davanti ai miei occhi annebbiati apparve la regina, livida in volto, rannicchiata in un angolo, con le braccia conserte e le labbra serrate.

Arrivò anche Khlo dal corridoio, richiamata dal collare infuocato, con la tunica sgualcita e umettata dal vapore delle cucine.

Mi venne da piangere per la gioia.

Il vestito mi stava scivolando sotto il seno senza più nulla a sostenerlo in vita. Me ne fregai e le corsi incontro, divincolandomi dalla presa di quel mostro malvagio.

Le gettai le braccia al collo e iniziai a singhiozzare come una bambina.

«Stavo soffocando, non ce la facevo più... stavo soffocando, te lo giuro!»

Carezze amorevoli avvolsero la mia schiena scossa dai singulti. «Mi dispiace...» mormorai, memore delle mie innumerevoli promesse infrante. «Mi dispiace.»

La stanza era devastata, come se vi fosse passato un uragano. Durante la battaglia alcuni volumi erano finiti a terra, i documenti erano piovuti ovunque, vasi in mille cocci, inchiostro sulle fodere, sui tappeti, sul muro, le tende annerite dall'arsura, le luci tremolanti sospese nel vuoto, senza più alcuna lampada a sostenerle.

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