17. Un demone superiore

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Il re andò dritto nel suo ufficio, si levò con un gesto violento la maschera strappandosela dal volto in fiamme, iniziò a spostare carte ed echeggiò la magia nella stanza. Una finestra si spalancò lasciando entrare una folata d'aria autunnale.

Due guardie apparvero davanti alla porta dello studio.

«Conducetela nelle sue stanze.» L'ordine mi trapassò come la brezza leggera che recalcitrava nell'ufficio.

Ero annichilita dalla paura.

Lui prese a confabulare in una lingua sconosciuta, non so a chi si rivolgesse, se ai suoi Dèi o a qualcuno che lo stava udendo a distanza, forse formulava degli incantesimi, forse parlava semplicemente da solo.

Forse era impazzito.

«Elijah...» La mano della sentinella elfica si posizionò sulla mia spalla, mi divincolai con le lacrime pronte a sgorgare. «Era Elijah?»

Il re mi fissò coi suoi occhi da cervo, neri e imperscrutabili come la notte nefasta in cui ero approdata nel suo regno.

«Era il Principe di Niegek, il suo vero nome è...»

Il suono rauco che sgorgò dalle labbra del re paralizzò i presenti e colpì anche me, un'iniezione di magia dritta nelle vene. I soldati s'irrigidirono come blocchi di ghiaccio, la mano sulla mia spalla si fece all'improvviso fredda.

L'aveva pronunciato ad alta voce. E non era un nome qualunque, anche una stupida come me l'aveva capito. Quello era un nome immortale. Quello era il nome di un essere superiore. Quello era un nome demoniaco, celava un maleficio e aleggiò nell'aere: una maledizione impronunciabile, un destino, una condanna.

Il mio promesso sposo.


La scorta non mi riaccompagnò nella cella in cui ero stata fino ad allora confinata. Presero tutt'altro percorso; attraversammo corridoi labirintici dai muri color cipria, superammo dipinti di paesaggi ameni, una fauna fin troppo variegata, fatine svestite, cerberi in pose guerresche, scalammo gradini rivestiti di morbidi tappeti porpora e oltrepassammo diverse stanze dalle sfarzose maniglie d'ottone.

Mi stavo per lamentare, quando i due si fermarono in sincrono davanti a un opulento ingresso di un bianco lattiginoso. Spalancarono due ante e presentarono ai miei occhi un palazzo nel palazzo.


Ho già detto di aver vissuto diciotto anni della mia miserabile vita in una minuscola e decadente stamberga, tenuta su da quattro legni marci e dal sudore salato dei miei fratelli. Dopo la loro morte, il primo a cedere fu il fienile. Ben presto avremmo perso anche la stalla, era in pessime condizioni. Se fossi rimasta a Nöa...

Chissà dov'era ora mio papà...


Quando mi spinsero dentro, vacillai.

La porta si richiuse sbattendo alle mie spalle.

La camera era composta da un letto a baldacchino a due piazze, con morbide tende diafane che pendevano ai lati, affiancato da due comodini alti e spaziosi con lampade fatate di un azzurro pastello. Un divanetto era stato posizionato sotto la finestra a volta che dava sulle montagne innevate. La toeletta, dalla parte opposta della stanza, aveva due sgabelli, un set di trucchi, pennelli e spazzole già posizionato negli anfratti appositi e due asciugamani ripiegati con cura sul bordo. Un piccolo corridoio portava a una saletta interna, dove si trovava un'ampia libreria a muro, una scrivania con inchiostro, penne e carta da lettere, altri due divanetti e un tavolino basso, di cristallo, con un bel servizio da tè in porcellana dai motivi floreali al centro di un oblungo vassoio d'argento.

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