𝐏𝐑𝐎𝐋𝐎𝐆𝐎

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"Io sono il frutto
di quello che mi è stato fatto. 
È il principio fondamentale dell'universo: 
a ogni azione corrisponde una reazione uguale contraria."
- Dal film: V per vendetta.

𝑁𝑖𝑐𝑜𝑙𝑒 𝐶𝑎𝑠𝑡𝑖𝑙𝑙𝑜
𝑁𝑖𝑐𝑜𝑙𝑒 𝐶𝑎𝑠𝑡𝑖𝑙𝑙𝑜
𝑁𝑖𝑐𝑜𝑙𝑒 𝐶𝑎𝑠𝑡

Il telefono squillò, perciò lo sistemai fra la spalla e l'orecchio prima di cliccare il tastino per accettare la chiamata.

Colui che stava dall'altro lato continuava a parlare e parlare di una cosa che mi aveva ripetuto talmente tante volte da essere ben incisa nella mia mente, così lo ignorai e continuai a scarabocchiare quelle due paroline magiche sulla carta ruvida.

Dopo una decina scarsa di minuti, anche se persa nei miei pensieri, percepii troppo silenzio dall'altra parte e mi resi conto che la voce fastidiosa si era arrestata per testare se stessi davvero ascoltando.

Ops. Beccata.

«Perdonami». Mormorai a voce stanca. «Sono un po' stanca».

Dall'altro lato ci fu silenzio e poi parlò. «E distratta evidentemente. Cosa stai facendo?».

«Sto riempendo una pagina di un taccuino con la mia nuova firma, sai, non sono abituata a firmare con un nome che non sia il mio reale». Ironizzai, continuando a scrivere in maniera veloce. Prima o poi sarebbe uscita bene.

Quando ribatté mi sentii una bambina che era appena stata rimessa in riga. «Se per te è troppo posso sempre dare questo incarico ad un'altra persona, non preoccuparti». Utilizzò un tono severo, quasi cattivo, per il rapporto che avevamo sempre avuto. Probabilmente era dovuto all'importanza elevata di quel caso.

«No». Ringhiai. «L'incarico è mio».

«Sai, bambolina, c'è una voce che mi dice che c'è un motivo se hai fatto di tutto per ottenere questo caso. Il mio sesto senso, forse».

Alzai lo sguardo dal foglio. «Il tuo sesto senso è difettoso».

«Magari sì». Ridacchiò. «O magari no, bambolina».

«Mi hai chiamato per dirmi qualcosa oltre la solita solfa?».

«Volevo solo sapere se ti sentivi pronta». Perse ogni tipo di ironia e mi sembrò veramente preoccupato per me. Non ne aveva motivo.

«Io sono sempre pronta». Mi leccai le labbra. «Adesso devo andare, ho una valigia da riempire con molti outfit da brava ragazza». L'ultima cosa che sentii prima di chiudere fu la sua risata.

Osservai il fuoco crepitare e gli tirai contro la pagina strappata dal taccuino, eliminando un'ulteriore possibile prova di quello che ero in procinto di fare.

Sin da bambini ci viene insegnato che la redenzione esiste.

Cresciamo con la convinzione che ad ogni errore corrisponda una soluzione. Il terzo principio della Dinamica ci insegna, invece, che se un corpo A esercita una forza su un corpo B, allora B esercita su A una forza uguale e contraria. Nessuno però ha mai parlato dell'effetto che tutto questo faccia al corpo A.
Un'altra cosa di cui nessuno parla sono i detenuti, "gli scarti della società", così vengono chiamati. Sono quelli che hanno fatto degli sbagli gravi, seppur chi più e chi meno, e che per questo vengono allontanati dalla civiltà, chiusi in delle celle da circa 1,80 x 2,40 metri, senza alcun contatto con il mondo esterno fatta eccezione per l'unica ora di sole. Ammesso in un concesso ci sia, il sole.

Ci viene detto che il carcere è un'istituzione sorretta da una duplice funzione: privare della libertà il soggetto che ha violato le regole della convivenza sociale, trasformandolo, attraverso delle tecniche di correzione, in un cittadino socialmente riadattato.
Serve a rieducarlo, dicono.

Ma la verità è che con il tempo le strutture di detenzione sono andate al collasso, per molteplici cause, e si è dimenticato il senso per cui sono nate. Adesso il detenuto non viene più rinchiuso per essere rieducato, non è più la reclusione la sola punizione: è la denutrizione, le temperature elevate o calanti, la mancanza di igiene, le percussioni fisiche, la violenza psicologica, la privazione di aria pulita e di qualsiasi hobby, dello studio, della lettura, delle conversazioni.

Entri in carcere come persona e ne esci come numero, perché tutto ciò che ti differenziava dagli altri te lo hanno tolto. Se hai la fortuna di uscirne, perlomeno. Secondo gli ultimi dati il tasso dei suicidi è oggi pari a circa 13 casi ogni 10.000 persone detenute: si tratta del valore più alto mai registrato.

E la cosa che più mi faceva male, scavandomi un buco nel petto, era l'amara consapevolezza che in quel numerino, per loro di poco conto, ci rientrava anche mio fratello. Un detenuto come tanti che non ha retto la terribile pressione psicologica e ha preferito morire piuttosto che stare un altro giorno rinchiuso dietro quelle sbarre, lì dove il freddo e il silenzio pesavano di più.

Mancavano solo pochi mesi al suo rilascio. Solo pochi mesi e avrei avuto la possibilità di riabbracciarlo, di riavere una parte della mia famiglia che in poco tempo era andata distrutta.
Non aveva ucciso nessuno, non aveva fatto del male a nessuno.

In poco tempo avevo perso tutto, mio padre e mio fratello, ed ero rimasta sola con me stessa, con il mio dolore. Il mio lavoro, quello per cui mi ero sacrificata per molto tempo, era diventata la mia unica valvola di sfogo.

Avevo smesso di credere nella redenzione, così come nella polizia, nelle guardie penitenziarie e al sistema giuridico internazionale. Ora sapevo bene quale fosse il gusto della vendetta, di riprendersi ciò ci avevano tolto, e di agire in nome dell'unica giustizia che esisteva.

Non quella divina, né quella giuridica. La propria.

Chiusi la valigia a fatica, i vestiti pesanti occupavano tanto spazio, e poi mi fermai con le mani poggiate sui fianchi. Non ero nervosa, né avevo paura del luogo in cui stavo per recarmi, piuttosto avevo timore di empatizzare troppo con dei detenuti che avevano motivo di trovarsi lì.
O forse, avevo paura di rivedere mio fratello in uno di loro.

Una chiamata mi avvertì del fatto che il mio elicottero privato era arrivato in aeroporto e che una guardia penitenziaria attendeva il mio arrivo.

Mi chiesi cosa avrebbe pensato nostro padre se avesse saputo che la sua bambina stava per recarsi in un covo colmo dei criminali più spietati, quelli che il governo era stato costretto ad allontanare dalla civiltà e che la gente, con il tempo, aveva dimenticato.

Indossai il capotto pesante e finsi che quello fosse un abbraccio dai miei cari, in procinto di salutarmi per la mia futura assenza. In quel silenzio assordante non c'erano loro, però. C'ero solo io.

Qualcosa che mi donava un bagliore di speranza c'era. Sapevo che se non avevo potuto salvare lui, potevo ancora salvarne altri.

The Not HeardDär berättelser lever. Upptäck nu