II

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Malgrado le foto segnaletiche che mi erano state inviate, comprese nei fascicoli di ogni detenuto presente a Heard Prison, e malgrado avessi già potuto osservare la bellezza di Airton Parisi, ne rimasi comunque folgorata. 

L'orribile divisa blu che nascondeva il suo corpo muscoloso e i tagli sulle mani e sul viso non toglievano alcun splendore al suo viso delineato, agli attenti occhi scurissimi e alle labbra piene, anche se rovinate e visibilmente secche, come se non bevesse da un bel po' di tempo. Tuttavia la sua voce era stata la cosa più sorprendente: non perché fosse profonda e bassa, ma perché il motivo della mia presenza lì era anche il suo perenne silenzio. 

A quanto pare gli unici con cui pronunciava qualche parola ogni tanto erano Theodore, il direttore, e Vince, l'unica guardia buona lì dentro. Non che conoscessi le altre, ma ero in grado di vederlo dalla sua scioltezza fisica, dalle braccia mai incrociate, dalle mani ben lontane dal manganello e dalla fondina e dai sorrisi che ogni tanto dedicava ai detenuti. 

Dall'esterno della sala adibita come mio studio io potevo vedere lui, grazie al vetro trasparente e al piccolo corridoio che la precedeva, ma lui non poteva vedere me. Non era agitato, la sua posizione era rilassata e le sue gambe ben distese, e sembrava anche abituato ad avere le mani bloccate da un paio di manette ancorate al tavolo grigio. Fra le dita continuava a rigirarsi i cerotti che gli avevo regalato qualche ora prima, durante il pranzo. Tenni il fascicolo stretto al petto ed aprii la porta. Mentre il suo sguardo vagava su di me presi posto di fronte a lui, facendo attenzione a mantenere la sua stessa posizione calma e rilassata. 

Mi schiarii la voce. «Come si sente oggi, signor Parisi?».

Il suo sopracciglio scattò in alto. «Mi hai visto il culo più di quanto hai visto la mia faccia e mi dai del lei?».

«Giusto, perdonami. È che non c'è molta differenza fra le due parti del tuo corpo». Presi il mio taccuino e iniziai a girare le pagine per trovarne una pulita. «Dicevamo, quindi, signor culo sodo e pallido... come si sente oggi?». 

I suoi occhi scuri brillarono di divertimento, ma durò un solo fuggente attimo. «Stavo meglio ieri, prima del tuo arrivo».

«Siamo sulla strada giusta allora!». Caricai la mia voce con un tono di ironia sottile ma tagliente. 

«Sapevo che la psicologa servisse a farti stare meglio. Ho avuto una convinzione sbagliata fino ad ora?».

Sospirai, incrociando le braccia al petto. «Sì, perché quella è solo la destinazione finale. L'intero percorso, invece, non ti deve far stare meglio: ti deve mettere in estrema difficoltà, deve quasi farti paura, perché mette te stesso contro te stesso alla ricerca di... te stesso. Il vero».

Per un momento si limitò a fare silenzio, con lo sguardo puntato sui suoi – miei – cerotti. «Dove diavolo hai trovato dei cerotti di Louis Vuitton?».

«Non-». Presi un respiro e chiusi gli occhi, riaprendoli poco dopo e beccando i suoi già fissi su di me. «Da nessuna parte, in realtà. Li ha creati una persona molto importante per me qualche tempo fa e li porto sempre con me per le evenienze più gravi».

Non distolse lo sguardo, a differenza mia, neanche per un solo secondo. «Perché te li ha fatti proprio così?». 

«Non ti piace parlare, ma ti piace ascoltare a quanto vedo». Un sorriso imbarazzato mi curvò le labbra. 

The Not HeardWhere stories live. Discover now