XXVIII

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Airton

Il solo respirare mi recava dolore. I miei polmoni si allargavano per prendere fiato, ma al posto dell'ossigeno ricavavano soltanto il dolore di una fitta acuta che mi attraversava il petto.

Normalmente questo mi accadeva a causa dei calci, o dei pugni, che avevo subito, ma in quel caso il mio fisico stava benissimo. Dopo le continue trasfusioni e la cura a cui mi aveva sottoposto la dolce infermiera avevo perfino riacquistato le energie.

Il mio corpo aveva finalmente smesso di soffrire. Era il mio cuore a non stare bene adesso.

Tenni le mani unite di fronte a me, ignorando totalmente il vassoio con il cibo che mi aveva portato l'agente Adams poco prima. Adesso se ne stava impalato lì davanti attendendo, da me, una singola reazione che non avrebbe ricavato. 

«Airton puoi mangiarlo dannazione, è cibo normale. Ho evitato appositamente la carne», mi sussurrò frustrato. «Mangia almeno un po' di sandwich e qualche carota!».

Alzai lo sguardo su di lui solo per fulminarlo. «Cos'è, la tua amica vuole pulirsi la coscienza e ha mandato te a farmi da balia?».

Lo sentii sospirare con fastidio. «Sto cercando di aiutarti perché tengo alla tua salute».

«Oh, perdonami se non mi fido più di nessuno! Sai, ho compreso da poco che la gentilezza non esiste: ogni comportamento viene smosso da un doppio ricavato, tutto quello che mi viene dato dovrà tornare al mittente con gli interessi».

Scosse la testa in procinto di ribattere, ma poi ci ripensò. Richiuse la bocca con uno scatto e strinse i denti, stringendo lo schienale della sedia di fronte a me fino a far diventare le nocche bianche. «Okay, ho capito. Il vassoio rimarrà qui per tutta la durata del pranzo, se vorrai decidere di fidarti di me potrai sfamarti in autonomia. Buon pranzo».

Mi voltò velocemente le spalle e se ne andò, tornando a sedersi al fianco di Daneen e a qualche altro agente. Lei gli parlò a voce bassa, vicino all'orecchio, e lui rispose scuotendo lentamente la testa, poco prima di abbassare la nuca e passarsi le mani fra i capelli con ancora più frustrazione. Un po' mi dispiaceva, ma dubitavo che lui potesse capire il mio stato d'animo in quel momento.

Da giorni non dormivo, anche se gli angoli degli occhi mi bruciavano e la pelle in quel punto si era quasi scorticata, sembrava corrosa dalle piccole lacrime che la notte non riuscivo a fermare in alcun modo. E io mi sforzavo a mangiare qualcosa durante i pasti, ma poi insorgeva la nausea e a malapena riuscivo a resistere all'impulsivo di vomitare, come se il mio cervello fosse convinto di riuscire a disintossicare il cuore sputando via tutto quello che avevo dentro.

Ma l'amore non era un qualcosa di esterno, non era qualcosa che ingerivamo e finiva in giro per il nostro corpo, era qualcosa che ci nasceva dentro e dentro rimaneva. Qualcosa di inciso sulla pelle, sui muscoli, su ogni organo, che ad un certo punto infettava tutto.

La cosa peggiore di sentirsi traditi non era il tradimento in sé, non era nemmeno il dolore e la sensazione di sentirsi il cuore stretto in una morsa, ma l'abitudine che si trasformava in rarità. Osservare come ogni giorno iniziava e finiva in modo diverso, guardare il sole che si alzava o calava nel cielo e pensare "a quest'ora l'avrei rivista", sapendo bene che il passare dei giorni avrebbe portato con sé il suo odore, la morbidezza dei suoi capelli, il ricordo della sua voce e tutto quello che ci rimaneva stampato in testa di una persona.

L'odore intenso del cibo, e soprattutto della carne che avevano cucinato insieme allo stufato, mi costrinse ad alzarmi per lasciare la mensa il più in fretta possibile. Vince, che era l'unico ad aver già terminato il suo pranzo, mi si affiancò istantaneamente e con una mano sulla spalla mi scortò fuori, accompagnandomi nuovamente verso la mia cella. Il mio corpo a contatto con la temperatura gelata dell'esterno iniziò a tremare, ma strinsi i denti e non feci una piega.

The Not HeardDonde viven las historias. Descúbrelo ahora