XIV

4K 239 230
                                    

Da mio padre avevo ereditato tante cose, la più complicata da gestire era sicuramente la mancata abilità di saper mostrare agli altri i miei sentimenti e le mie emozioni. Le parole si rifiutavano di uscire dalla mia bocca e anche quando ci provavo, mettendo su un discorso chiaro e conciso dentro la mia testa, fuori dalle mie labbra usciva qualcosa di sconclusionato e infinito.

Mio padre mi aveva sempre detto che probabilmente era a causa sua, avendo avuto in casa soltanto il suo carattere, le sue abitudini e i suoi modi di fare come esempio da prendere. Piuttosto che usare le parole per dire quello che mi aveva infastidito di mio padre o di mio fratello, preferivo stare in silenzio a logorarmi dentro, sbattendo le ante, tirando gli oggetti e passando più tempo fuori casa che dentro.

Per questo mio padre aveva cercato di trovare una soluzione con una sorta di routine maniacale che tutt'ora mi salvava da situazioni che potevano risultarmi scomode: ci aveva insegnato a tenere un diario su cui appuntare tutto quello che non riuscivamo a dire, così da sfogare le nostre emozioni sulla carta, che era inumana e non provava dolore, piuttosto che su una persona.

Era una pratica che funzionava dannatamente bene e mi svuotava del tutto, lasciandomi vuota e pronta a ricominciare da capo.

Superai la soglia del mio ufficio veloce come un puma, posando la borsa sulla scrivania di fronte ad un Airton alquanto confuso ma curioso. «Ti ho portato una cosa».

«Si mangia?». Si protese verso la mia borsa, ma si allontanò quando ricevette uno schiaffetto sulla spalla come avvertimento.

«Dio santo, non sei cambiato di una virgola eh?». Scossi la testa, con un piccolo sorriso sulle labbra che contagiò anche lui. «Adesso capisco perché mio nonno ti chiamava "manciaturi"».

«Manciataro», mi corresse. «E comunque, ti assicuro che quando sono cresciuto ho smesso di mangiare come un bue. Per essere il campione di football dovevo avere un fisico atletico e ho sempre fatto una dieta molto restrittiva».

Lo guardai di sottecchi mentre impostavo la musica. «Eri anemico anche prima di finire qui?».

«Da sempre, ma a mio padre non è mai fregato nulla e non mi ha mai sottoposto ai dovuti controlli. E quando ho iniziato a capirci qualcosa io...». Lasciò cadere la frase.

«Sei finito qui». Conclusi io al posto suo, osservandolo mentre annuiva.

Alzai più del solito il volume della musica e, prendendolo per il polso con una presa delicata, me lo tirai dietro ignorando le sue espressioni sempre più incerte. Lo feci sedere sulle due comode poltrone poste alla fine della stanza, proprio sotto l'enorme finestra da cui trapelava la luce del mattino e da cui si poteva osservare il mare che si avvicinava alle foche che strisciavano tranquille sopra la neve sulla riva. Era uno spettacolo della natura in grado di donare una serenità che non era possibile spiegare a parole, era necessario vederlo con i propri occhi.

Con la coda dell'occhio notai un movimento fulmineo ed è così che mi accorsi del fatto che Airton si era letteralmente appiccicato al vetro, posandoci sopra le mani e perfino il naso, mantenendo un'espressione meravigliata sul volto.

Seguii il suo sguardo e mi portò sulla stessa scena che stavo osservando io poco prima.

«Airton?».

Non si mosse di un centimetro e quando parlò il vetro si appannò a causa del respiro caldo che si infrangeva proprio sul vetro. Aveva la stessa espressione di un bambino affamato di fronte ad una vetrina di un negozio di caramelle. «Questa è solo la seconda volta che li vedo».

«Come?». Non credevo di aver sentito bene.

«Hai sentito». Mormorò. «Theodore non ci ha mai permesso di mettere un solo piede fuori dalla recinzione che limita la prigione, ho visto le foche in riva al mare solo quando sono arrivato qui e solo per qualche secondo. Non me le hanno fatte toccare».

The Not HeardDove le storie prendono vita. Scoprilo ora