XXVII

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"Perché lasciar andare il passato?
Perché il passato ti ha già lasciato andare."
- [Steve Maraboli]


Arthur Schopenhauer affermava che nell'istante in cui accade una disgrazia nella nostra vita e riconosciamo che non è più possibile mutare quello che è stato, allora non sarebbe dovuto esistere, in noi, neanche il pensiero che le cose potessero andare in modo diverso o addirittura che potessero essere evitate. Quel tipo di pensiero infatti, almeno secondo lui, intensificava soltanto il dolore fino a renderlo intollerabile. E solo con il passare degli anni mi ero resa conto che avesse ragione.

Il dolore che mi portavo dentro sarebbe stato meno intenso, meno soffocante, se avessi passato la maggior parte del tempo a tentare di guarire e non a chiedermi se le cose sarebbero potute andare in un altro modo se mi fossi comportata diversamente. Se fossi stata più presente nelle sue giornate, più attenta ai suoi cambi di umore, più concentrata sulle sue parole.

Se lo avessi guardato di più negli occhi forse mi sarei resa conto della luce che si affievoliva ogni giorno di più. E forse avrei potuto agire in tempo, parlargli, tentare di capirlo, di farlo trasferire di prigione. Nel mio cuore persisteva un'emozione dolorosa che mi portava a credere di aver avuto il potere di cambiare le cose, ma di non averlo usato in tempo.

E così avevo passato i successivi anni a tentare in tutti i modi di riempire il vuoto lasciato da quell'emozione corrosiva, a vivere una vita che non mi sembrava neanche più mia, ad odiare il mio riflesso allo specchio perché ogni volta che mi guardavo negli occhi non ci vedevo i miei ma i suoi.

Mi ero ostinata a cercare una vendetta, avevo minuziosamente seguito Cairo in ogni suo trasferimento, mi ero impegnata per essere assunta come agente infiltrato per questa missione. Ma solo adesso mi rendevo conto di aver sprecato anni della mia vita inseguendo un sogno irraggiungibile: la vendetta non avrebbe riportato mio fratello indietro. Niente lo avrebbe fatto.

Il mio fratellone era andato via per sempre. E questo voleva dire che, se non volevo perdermi a mia volta, avrei dovuto lasciarlo andare.

Strinsi il cappotto nero cercando un po' di calore in più, anche se quella notte la neve cadeva molto più lentamente e in quantità minori rispetto al solito. Il vento si era placato, il mare dalla tonalità blu acciaio si infrangeva dolcemente sulla sabbia scura e le foche erano tutte raggruppate in un punto lontano, appoggiate a dei sassi in un sonno che sembrava veramente profondo. Mi sedetti proprio lì, di fronte al mare, lontano quanto bastava a non essere bagnata dalle onde che finivano sulla riva.

Il sole stava affacciando lentamente da dietro le nuvole e il nero della notte aveva lasciato spazio a un delizioso blu che colorava tutto il cielo, da lì a poco l'alba sarebbe stata uno spettacolo unico. Mi tirai le gambe sul petto e appoggiai il mento sulle ginocchia, osservandomi attorno con sguardo perso.

Nel frattempo, con la coda dell'occhio notai dei movimenti sfocati e imprecisi. Non ne fui affatto sorpresa.

«Bello, vero?». La sua voce fu morbida e bassa, un balsamo che mi scivolò sulle orecchie e mi portò a rilassare le spalle.

Feci un piccolo sorriso, ma scappai a gambe levate dai suoi occhi e dal suo viso in generale. Non volevo vederlo perché ero consapevole che sarebbe stata l'ultima volta. «Bello è dir poco».

Sembrò captare i miei pensieri. «Nerea», mi richiamò dolcemente e io, mio malgrado, fui costretta a spostare lo sguardo su di lui.

I suoi occhi, una via di mezzo fra il nocciola e il verde, erano grandi e luminosi com'erano sempre stati prima del problema di papà e tutto quello che ne era scaturito. I capelli biondi erano più aranciati del solito, illuminati dalla luce del sole che aveva abbandonato le nuvole e ci stava scaldando la pelle.

The Not HeardWhere stories live. Discover now