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"Si può barattare un così lungo dolore
con un brevissimo abbraccio?".
(Fabrizio De André)

Alla fine ero riuscita a parlare davvero poco con Airton. Pochi minuti dopo l'arrivo nel mio studio la guardia che sorvegliava il corridoio aveva bussato alla porta, richiamando la mia attenzione e spiegandomi che un detenuto aveva bisogno del mio urgente aiuto.

Uno dei detenuti che si era sempre rifiutato di parlare con me, rimanendo in silenzio per tutta la durata della seduta, aveva tentato il suicidio legandosi un lenzuolo al collo. Era rimasto con le gambe a penzoloni sullo spazio vuoto del corridoio che precedeva le scale di metallo che portavano ai diversi piani delle celle e quasi tutti i detenuti erano rimasti così scioccati da non riuscire ad agire.

A quanto pare era stato Isaiah a tirarlo su, con l'aiuto di un altro detenuto, e ad urlare per chiamare aiuto. Sembra faccia parte del "gruppo" di Kurtis, il che mi aveva subito portato a pensare alla pressione psicologica che quell'uomo doveva subire ogni giorno per colpa sua.

Avevo visto com'era l'atteggiamento di Kurtis, non aveva niente da perdere e pareva adorare mettere gli altri in difficoltà. Ci aveva provato con me, lo faceva ogni giorno con Rem.

Era stato difficile chiudere i ricordi dolorosi in un angolo buio della mia mente mentre correvo verso l'infermiera, sentendomi una fallita per aver permesso ad un solo altro essere umano di pensare che la morte fosse la soluzione più semplice per arrivare alla pace.

La terribile esperienza vissuta lo aveva portato a parlarmi, a capire che, anche se non avrei potuto cancellare il dolore e tutto quello che lo rattristava tanto da portarlo ad avere pensieri suicidi, avrei potuto aiutarlo a gestirlo. Gli avevo ripetuto più volte che ero lì per lui e non lo avevo lasciato fino al calar del sole, anche se ogni volta che il mio sguardo cadeva sul segno rosso che gli circondava il collo mi ritrovavo ad annaspare, a dimenticare temporaneamente come si faceva a respirare a causa di un dolore acuto al petto.

Anche se era andata per il meglio il mio umore era calato drasticamente e una volta terminato il mio turno di lavoro ero corsa a chiudermi in camera, azzerando i contatti con chiunque, perfino con Vince e Daneen. Non volevo che nessuno vedesse i miei occhi rossi, lucidi e gonfi, frutto di un piagnucolio che non ero riuscita a frenare mentre racimolavo le mie cose dalla scrivania.

La mia intera serata era passata percependo le lacrime calde scivolarmi giù dagli angoli degli occhi senza riuscire a fare niente per fermarle, sentendomi un fallimento totale nella vita privata per non essere riuscita a salvare mio fratello e nella vita professionale per non essere stata in grado di tirare fuori dal buio uno dei miei detenuti.

Volevo fare qualcosa per qualcuno. Volevo essere utile a qualcuno.

Forse, anzi probabilmente, era questo il motivo per cui avevo appena aperto le porte della caffetteria nella speranza di trovare la persona che sembrava aver bisogno di aiuto più di tutti.

E lo trovai, in effetti. Appoggiato al bancone con i gomiti e con in mano un cucchiaio, giocava spostando i cereali all'interno di una tazza di ceramica che sapevo essere colma di latte e caffè. Aveva mantenuto più tradizioni italiane nelle sue abitudini rispetto a me, che mi ero adeguata alle diverse città in cui avevo vissuto.

I suoi occhi si alzarono immediatamente su di me.
Sperai vivamente che il chiaro di luna non illuminasse il mio viso tanto da fargli vedere i miei oggi arrossati e per questo mi spostai di lato, evitando che la luce mi colpisse proprio sul viso.

Parlò a voce bassa. «Ciao».

Mi schiarii la voce, evitando la possibilità che mi uscisse un tono più gracchiante del voluto. «Ciao».

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