XXIII

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Lysander

La maggior parte della gente mi annoiava da morire. Ecco perché mi trovavo nella piccola stanza adibita a "sala relax" per le guardie con le mani nascoste dentro le tasche, osservando con pigrizia i colleghi che mi passavano a fianco. 

Che barba, che noia. Che barba, che noia.

Avevo anche cercato di disturbare Nerea, mandandole degli sms provocatori sulla sua relazione nascosta, perché questo era, ma non era andata come desideravo. Mi stava ignorando, troppo occupata a rimettere insieme i pezzi e le prove per chiedere uno sconto di pena per lui per riuscire a badare anche a me e alla mia perenne noia.

«Salah, è il tuo turno. Va' pure a pranzare». Vince mi diede una pacca affettuosa sulla spalla, cosa che mi infastidì particolarmente. Dovevo essere mentalmente preparato a ricevere del contatto fisico per riuscire ad apprezzarlo.

Tuttavia sorrisi e annuii. «Okay».

Con una mano controllai che la pistola fosse ancora al suo posto, nella fondina, e nascosi le mani nella tasca della divisa mentre lo sorpassavo diretto all'esterno della prigione. Appena misi piede fuori, con la scarpa che affondava nello strato alto di neve, qualche fiocco iniziò a cadermi in testa e ad incastrarsi fra i miei riccioli scuri e corti.

Il dolore al petto fu inevitabile nel ricordare quanto a lei piacesse fotografare i fiocchi di neve con la macro. Storsi il naso e continuai a camminare, anche se mi pesava farlo, perché era quello che si doveva fare: andare avanti, sempre.

«Stai cercando di prenderti una polmonite per ottenere altre vacanze?». Voltai la testa e la prima cosa che notai fu come il beige del velo si abbinasse perfettamente al suo viso. «Dovresti indossare un cappotto, l'ipotermia non è un fattore da sottovalutare».

Battei le palpebre più volte, piacevolmente sorpreso dal fatto che si preoccupasse di non farmi finire in ipotermia. La sua bellezza mi rapì per qualche secondo, i suoi luminosi occhi marroni e le labbra rosee di burro cacao attirarono il mio sguardo come un magnete più volte di quelle che desiderassi.

«Sopporto il freddo abbastanza bene».

«Ti ammiro», un sorriso gli allungò gli angoli delle labbra mentre mi mostrava le mani avvolte da un paio di guanti neri, «di sicuro io non lo sopporto affatto».

Inclinai la testa di lato e la invitai a seguirmi in caffetteria, che era finalmente stata riaperta. «Devi ancora pranzare?».

«Sì, ho posticipato il pranzo perché sapevo di dover pranzare da sola e non avevo molto appetito. Nicole sta lavorando duro per provare ad ottenere uno sconto di pena per Airton».

Annuii lentamente e mi affiancai a lei, seguendola in direzione della caffetteria. Non riuscii a non pensare che la riapertura di essa, in qualche modo, fosse riconducibile al lieve diminuire dei detenuti nei giorni precedenti, proprio durante la nostra assenza.

Ero sempre più convinto del fatto che la carne umana servita nello stufato che riproponevano ogni giorno ai carcerati fosse quella ricavata dalle morti che erano avvenute nell'ala est. Forse erano stati congelati, ovviamente dopo essere stati tagliati a pezzi, e questo era plausibile considerando le bare vuote che erano state spedite ai cari dei defunti. Da quello che diceva Nerea, nel periodo in cui era stata assunta qui non veniva servito alcuno stufato di carne, ma piuttosto cibi semplici o addirittura solo brodo condito da qualche verdura.

Non avevo bisogno della verità, ma solo di una conferma.

«Ci tiene molto ai detenuti. Chissà cosa le è successo».

Aggrottai la fronte. «Da cosa lo deduci?».

«Difficilmente la gente comune si preoccupa così tanto di questa fetta della società, non dei criminali ma dei carcerati, che non sempre sono la stessa cosa. Accade solo a chi ha una spiccata sensibilità, che è una cosa che alla fine si paga a caro prezzo».

The Not HeardWhere stories live. Discover now